lunedì 28 marzo 2016

RICOLFI : EUROPEI PAVIDI, IMMIGRATI PIU' PORTATI AL RISCHIO, ANCHE CRIMINALE.

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In genere  Luca Ricolfi  non dedica le sue analisi a fatti di cronaca, per quanto drammatici e stringenti come gli attentati terroristici.
Stavolta lo fa, almeno come pretesto per poi allargare il tiro, ma a modo suo, un modo tutto da leggere, a mio avviso, e che suggerisco particolarmente ai miei amici colleghi del penale.
Alcuni avranno molto da ridire su alcune considerazioni di Ricolfi, però li esorto a rileggere una seconda volta con minore emotività, riflettendo che l'autore, esperto di sociologia a statistica applicata alla prima, non è assolutamente iscritto al partito giustizialista, come dimostra il riferimento alla profonda utilità, ai fini di evitare recidive, di un carcere umano e rieducativo. Allo stesso tempo Ricolfi fa osservazioni scomode, denunciando la crescente inadeguatezza dei sistemi di giustizia occidentali, specie in alcuni paesi, tra cui il nostro (e il Belgio), chiamati a gestire l'emergenza di una "utenza" diversa, con una spiccata propensione a correre il rischio legato all'attività criminosa. La conseguenza dovrebbe essere il mutamento di approccio, del sistema e dei suoi gestori.
Vasto Programma.



Terrorismo, perché l'Europa è impotente

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Uno dei luoghi comuni più radicati della retorica progressista recita più o meno così: è ingiusto e sbagliato trattare in modo eguale soggetti che eguali non sono. Di qui prende lo spunto la critica della “finzione” liberale, colpevole di ignorare che le libertà formali non bastano, in un mondo in cui le condizioni di partenza sono diversissime. C’è molto di ragionevole in questo punto di vista, se non altro perché esso attira l’attenzione su un punto tanto ovvio quanto dimenticato: qualsiasi azione, norma o misura messa in atto dal potere politico esercita effetti diversi, talora profondamente diversi, a seconda dei destinatari.  

È strano, tuttavia, che questo elementare principio sociologico sia così spesso rimosso, e lo sia in modo particolare dai suoi difensori più accesi. Negli ultimi trent'anni, ad esempio, il drastico abbassamento nel livello degli studi ha colpito i ceti deboli, privi di capitale culturale e di relazioni sociali, assai più di quanto abbia colpito i ceti alti, ricchi di risorse materiali, culturali e relazionali. Curiosamente, tuttavia, questa tanto drammatica quanto macroscopica asimmetria non è mai comparsa sul radar della cultura progressista.

Qualcosa di simile, a mio parere, sta accadendo nelle discussioni dell'ultimo anno sulla lotta al terrorismo. La cultura progressista appare impegnata in una spasmodica difesa dei valori liberali (che ha sempre criticato per il loro “astratto universalismo”), e del tutto dimentica del principio della asimmetria degli effetti, che pure tanta parte ha avuto nella storia delle idee progressiste.
Proclamando in tutte le sedi che non dobbiamo cambiare una virgola del nostro modo di vivere, che dobbiamo continuare ad accogliere ed integrare anche gli islamici, che va evitato ogni trattamento differenziale degli immigrati rispetto ai cittadini europei, che non possiamo cambiare le nostre leggi e i nostri principi di fondo (salvo dichiarare che “l'islam è parte dell'Europa”: copyright Federica Mogherini), essa dimentica precisamente le differenze, cui pure in altri contesti appare sensibilissima.
Qui non mi riferisco però alle differenze ben note (anche se diversamente valutate) fra valori occidentali e islam, ossia al modo di trattare la donna, o al rifiuto del principio di separazione fra religione e politica.
No, la differenza su cui voglio attirare l'attenzione è qualcosa di più sottile, che poco ha a che fare con la religione e l'ideologia, e molto con i comportamenti della vita quotidiana.
Questo qualcosa non divide solo il terrorista islamico dal comune cittadino europeo, ma spesso divide l'immigrato dal nativo, e talora i nativi stessi fra di loro. Ed è cruciale nel contrasto all'illegalità, alla criminalità e al terrorismo, di qualsiasi fede o non fede essi siano.

Di che cosa si tratta?

Si tratta di una differenza di cui si occupano pochi, almeno nel dibattito pubblico (fra le eccezioni gli psicologi sociali, e lo scrittore Antonio Scurati). E' la differenza fra chi ha una bassa e chi un'elevata propensione al rischio. O, se preferite, fra chi è profondamente avverso al rischio e chi lo accetta, o addirittura lo cerca. Noi, normali cittadini europei, abbiamo una elevatissima avversione al rischio. L'immigrato medio ha un retroterra di esperienze e di sofferenze che lo rende enormemente più disponibile ad assumere rischi, nel bene come nel male.
Se una ragazza subisce un'aggressione in un tram, o un bambino rischia di annegare fra i gorghi di un fiume, è più facile che siano soccorsi da un immigrato che da un civilissimo cittadino europeo. Simmetricamente, nella manovalanza criminale gli stranieri sono sistematicamente sovra rappresentati rispetto ai nativi, presumibilmente anche per la loro minore avversione al rischio. Queste differenze diventano ovviamente abissali nel caso dei terroristi islamici autentici, ossia realmente convinti che l'unica cosa che li separa dal paradiso di Allah è la cordicella del detonatore che li farà esplodere.

Ebbene, a me pare che nella lotta al terrorismo, ma più in generale alla criminalità (organizzata e comune), sia proprio questo, il diverso atteggiamento verso il rischio, l'elemento costantemente dimenticato. I nostri sistemi legislativi, giudiziari e penali hanno qualche efficacia finché a dover essere governati sono solo gli educati ed impauriti cittadini occidentali, ma diventano drammaticamente inadeguati, per non dire patetici, non appena ci si pone il problema di combattere individui e gruppi la cui propensione al rischio è incomparabilmente maggiore di quella del cittadino comune, sia esso nativo o immigrato, di prima, seconda o terza generazione.
Il borghese benpensante e rispettabile, ma anche semplicemente il piccolo artigiano che si è fatto da sé, non possono permettersi neppure una notte in gattabuia, o un blando procedimento penale per qualche reato amministrativo. Ma ladri e criminali, che spadroneggiano nelle nostre città e nei nostri quartieri, se la ridono di gusto di fronte alle nostre procedure, tanto più in paesi-colabrodo come l'Italia e il Belgio. Noi italiani siamo stra-abituati, quando viene commesso un crimine violento, a scoprire quante volte il suo autore era già stato arrestato, condannato e rilasciato, e non può che averci provocato un sussulto di amara consolazione apprendere che uno dei terroristi dell'ultimo attentato di Bruxelles era già stato condannato a 10 anni di reclusione e scarcerato dopo soli 3 anni, nonostante la gravità dei reati commessi (compreso un conflitto a fuoco con la polizia, a colpi di kalashnikov).

Certo, possiamo anche trastullarci con le solite parole d'ordine: ci vuole “più coordinamento”, “più intelligence”, più “unità d'azione”, “più investimenti”, “più risorse”, “più cultura”, “più Europa”. Possiamo anche raccontarci che un intervento militare massiccio e determinato sarebbe in grado di estirpare il terrorismo islamico alla radice. Ma temo che, per lo meno nel breve periodo, l'unico gesto incisivo, non tanto contro il terrorismo islamico quanto contro la criminalità in generale, sarebbe di prendere atto che, quando una frazione non trascurabile della popolazione ha una bassa avversione al rischio di incorrere nei rigori della legge, l'unico rimedio efficace è di aumentare le probabilità che chi delinque subisca effettivamente delle sanzioni, ivi compresa l'incarcerazione per un tempo non irrisorio.
Poche cose sono più criminogene che le norme proclamate e non fatte rispettare, come sa chiunque provi a educare dei figli o a mantenere la disciplina in una classe.

Il punto, però, è che per imboccare la strada di una lotta efficace alla criminalità è inevitabile rinunciare a qualche abitudine, a qualche credenza o a qualche tabù.
Le forze dell'ordine, ad esempio, dovrebbero abbandonare la prassi di trattare certe porzioni di territorio come zone franche (penso al caporalato nelle campagne, o ai quartieri in cui la polizia non osa entrare o preferisce chiudere un occhio). Le carceri dovrebbero diventare luoghi civili (come giustamente, da decenni, invocano i radicali), ma i soggetti pericolosi dovrebbero permanervi un tempo non irrisorio, perché la cosiddetta “incapacitazione” (ossia la messa di un soggetto nell'impossibilità materiale di compiere crimini), se accompagnata da misure di rieducazione, è uno degli strumenti più efficaci per ridurre il numero di reati.
Soprattutto, dovremmo cominciare a renderci conto che l'unico modo per contrastare i soggetti con bassa avversione al rischio è innalzare il rischio stesso, non tanto di essere individuati quanto di essere condannati (celermente) e sanzionati (effettivamente). Questo vale per tutti i cittadini presenti in Europa, ma vale in modo particolare per quanti, rifugiati e migranti economici, l'Europa giustamente cerca di accogliere entro i propri confini.

In un paese come l'Italia il tasso di criminalità degli immigrati è circa sei volte quello degli italiani, e probabilmente poggia più su una minore avversione al rischio che su speciali, indimostrate, tendenze criminali connesse alle varie etnie. Come tale può essere ridotto semplicemente alzando il rischio, ovvero il prezzo, della commissione di reati.
Se, ad esempio, un ospite di paese europeo che commette reati perdesse definitivamente il diritto ai benefici del welfare (in caso di reati minori) e il diritto di risiedere in Europa (in caso di reati gravi), la maggiore propensione al rischio degli immigrati sarebbe bilanciata dai costi della violazione delle regole.

Capisco che questo modo di vedere il problema non può piacere ai più accesi sostenitori dell'integrazione “senza se e senza ma”. Però vorrei osservare sommessamente che, fra le diseguaglianze, vi è anche quella fra chi rispetta le regole, spesso facendo sacrifici e rinunce, e chi non le rispetta, spesso con benefici di gran lunga superiori ai costi.
E che le pulsioni xenofobe e securitarie vengono anche dalla quotidiana constatazione dell'impunità di determinati comportamenti e di determinati gruppi sociali. Possiamo essere così affezionati ai nostri principi di umanità e accoglienza da non voler cambiare in alcun modo questo stato di cose. In tal caso, tuttavia, prepariamoci anche a vivere in un mondo di intolleranza e risentimento crescenti.

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