Tutto sommato sarebbe quasi una buona notizia, se si potesse dedurre, dall'articolato editoriale odierno del professor Panebianco sul Corsera, che in Italia i non liberali fossero solo un terzo abbondante degli italiani, ma mi andrebbe bene anche la metà !
In realtà sono molti di più, e l'illusione - che in realtà non attecchisce - sarebbe provocato dalla diversa lettura della parola "illiberale".
Illiberale è per esempio uno che non crede alla democrazia rappresentativa, allo Stato di Diritto...
Ora, fiduciosamente penso che una buona parte dell'elettorato della DC, del PSI e anche di parte del PCI di ieri, oggi ritrovabile in quello piddino, nei cespugli centristi, in molti di Forza Italia, astrattamente, quanto meno, siano più propensi alla conservazione dei valori descritti, senza essere per questo dei liberali (persone cioè che hanno grande attenzione per la libertà individuale, sia personale che economica, che ritengono che sia meglio uno Stato leggero che uno onnipresente, che le tasse non sono una bella cosa e che è bene tenerle basse...sta roba qui...).
I moderati insomma, sia di sinistra che di centro che di destra, maggioranza senza discussione, non sono illiberali, e nemmeno liberali.
Sgombrata ogni illusione e venendo al merito dell'articolo di Panebianco, il quadro rappresentato è , as usual, desolante e veritiero : un'Italia post moderna, che vedendo declinare la breve stagione del benessere (40/50 anni, nella storia di un paese, sono un attimo) , si chiude a riccio, rifiutando i rischi della modernità, in qualunque modo posti (in questo favoriti dai tribunali, TAR in primis, contro i quali ormai Panebianco lancia i suoi strali due volte su tre).
Un declino in atto, che senza inversione di tendenza peggiorerà velocemente.
Buona Lettura
CHI ODIA IL PROGRESSO
La forza preoccupante delle idee illiberali
Una «sindrome da sottosviluppo» ha colpito le menti di
tanti, non solo al Sud: un insieme di atteggiamenti che indicano la volontà di
prendere congedo dalla modernità
Forse la fine della più grave crisi economica del dopoguerra
ridimensionerà, magari anche drasticamente, in altri Paesi europei, il peso dei
movimenti impropriamente definiti populisti ma che è meglio definire
«antisistema» (nemici della società libera o aperta). Ma è dubbio che tale
ridimensionamento sarà possibile in Italia. Per un insieme di ragioni che hanno
a che fare con il nostro passato sia lontano che recente.
Da noi l’avversione
per la società libera, per l’ordine liberale, è sempre stata potentemente
diffusa. Non si può dimenticare che l’Italia, fin dalla sua rinascita democratica,
e per tutta la Guerra
fredda, ha goduto del dubbio privilegio di avere il più forte partito comunista
d’Occidente. Se si sommano i voti dell’estrema sinistra e della estrema destra
di allora, risulta che la quota di elettori che votavano per partiti
ideologicamente e programmaticamente illiberali non fu mai inferiore al trenta
per cento del totale.
Si aggiunga che, soprattutto negli anni
Cinquanta/Sessanta, nella Dc e nel Psi erano presenti correnti di minoranza,
anch’esse a vario titolo illiberali. Date le preferenze di una così ampia parte
di italiani, ciò che salvò la nostra fragile e zoppicante democrazia, ciò che
impedì che essa venisse sostituita da una qualche forma di corporativismo
autoritario (magari al termine di una guerra civile), fu l’ancoraggio
internazionale, il fatto che la
Guerra fredda ci «inchiodò» al blocco occidentale, ci
costrinse ad accettarne regole e costumi.
Se si guarda alle percentuali che i sondaggi assegnano oggi
alle formazioni illiberali di varie e variopinte tendenze si ottengono
percentuali non dissimili da quelle che premiavano i partiti illiberali della
Prima Repubblica. Sono cambiate le motivazioni ideologiche ma non le pulsioni e
gli orientamenti di fondo, coperti, giustificati e (più o meno) nobilitati da quelle
motivazioni. C’è dunque una costante storica. Ma a essa si sono aggiunti, in
epoca più recente, altri fattori che, anch’essi, alimentano le propensioni
illiberali di una parte cospicua di nostri concittadini. Facciamo un rapido
elenco.
Si sono definitivamente consumate le illusioni — che c’erano nei primi
decenni dell’età repubblicana — di potere un giorno azzerare il divario fra
Nord e Sud (un terzo del territorio nazionale), di risolvere la questione
meridionale. Nessuno ci crede più. Pensare che questa fine delle illusioni non
abbia conseguenze destabilizzanti, che il Sud non alimenterà forme di rancoroso
ribellismo, è sbagliato.
C’è poi una più generale «sindrome da sottosviluppo» che ha
colpito le menti di tanti, non solo al Sud. Per sindrome da sottosviluppo
intendo un insieme di atteggiamenti che indicano la volontà di prendere congedo
dalla modernità. È una sindrome incompatibile con le esigenze di una società
libera (e quindi anche prospera e dinamica). Ha due principali cause: una
prolungata stagnazione economica e un sistema di istruzione che, in diverse
parti del Paese, è inceppato, capace più di sfornare diplomi, pezzi di carta,
che conoscenze. La combinazione di questi fattori spiega la diffusione di
atteggiamenti anti-industriali (spacciati per sensibilità ecologica) e di
incomprensione/avversione per la scienza e il progresso tecnico-scientifico. In
un Paese che si de-industrializza si diffondono atteggiamenti del tipo «uva
acerba»: «Sai che ti dico? Non ci interessa più un Paese industriale moderno.
Fa male alla salute». Guardate certe sentenze dei Tar quando sono in gioco
investimenti e attività industriali e vi accorgerete di quanto sia diffusa
questa sindrome. Anche l’altro baluardo di una società moderna, la scienza, da
noi è sotto attacco. La vicenda dei vaccini docet. D’altra parte, un sistema
educativo poco selettivo, che diploma anche coloro che, per preparazione, non
ne avrebbero diritto, perché dovrebbe permettere alle persone di apprezzare una
cosa complicata come la scienza? Senza contare il fatto che da noi sono troppo
pochi, tradizionalmente, i laureati in materie scientifiche e quei pochi non
riescono a fare massa, non riescono a influenzare le opinioni dominanti.
Proprio perché la sindrome da sottosviluppo ha scavato così
a fondo, ad esempio, è stato preso sul serio da tanti il «principio di
precauzione»: l’arma ideologica escogitata per fermare l’innovazione tecnica,
l’idea, ridicola e assurda, che non si possa fare alcunché senza essersi prima
assicurati di avere abolito ogni rischio. I rischi, naturalmente, non possono
mai essere eliminati del tutto, la vita stessa è un rischio. Invece, il
progresso tecnicoscientifico può essere benissimo eliminato, o quanto meno
ritardato, a colpi di ideologia. Oltre alla sindrome da sottosviluppo, da
alcuni decenni, fornisce argomenti ai nemici della società aperta anche il
circo mediatico-giudiziario. Il suo incessante operare ha prodotto due
conseguenze: ha annullato, in primo luogo, nella coscienza di tanti, il
principio fondamentale su cui si regge la società libera, la distinzione e la
separazione fra il «peccato» e il «reato», fra l’etica e il diritto. Ha
convinto molti, in secondo luogo, che la politica rappresentativa sia in mano
ai corrotti e che occorra quindi ristabilire — contro la politica
rappresentativa — il governo della virtù.
Non c’è nemmeno bisogno di rifarsi al «principio di
precauzione». Non ci sono rischi, solo certezze: qualunque cosa accada negli
altri Paesi europei, in Italia i nemici dell’ordine liberale continueranno a
essere davvero tanti.
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