Ad una settimana, anche meno ormai, dal voto del 4 marzo Paolo Mieli fa alcune osservazioni sul Corriere della Sera che fanno riflettere, al di là della condivisibilità.
E in fondo è il merito degli opinionisti più capaci : non il fatto di scrivere cose che si approvano ( piace sempre quando chi scrive mette in bella forma ciò che già pensiamo per conto nostro...) , ma il far pensare, istillare dei dubbi.
Nel caso di oggi, l'ex direttore del Corrierone ripropone la quasi certezza, un po' di tutti, che all'indomani del 4 marzo in Italia non vi sarà una maggioranza chiara pronta ad esprimere il nuovo governo.
E fin qui, nessuna nuova.
Sul nome, diffusamente apprezzato, di Gentiloni, anche Mieli spende il suo favore, osservando però giustamente che, ancorché sia possibile, certo non pare probabile, che veramente l'uomo si troverà di nuovo a Palazzo Chigi, e sicuramente non potrà farlo con la compagine ministeriale attuale.
Il PD, beneficiato dall'ultima consultazione effettuata col Porcellum, non avrà il regalo della maggioranza della Camera dei Deputati né l'ipoteca sul Senato.
Nessun altro l'avrà, perché non c'è più il premio di maggioranza.
Mieli fa capire che lo rimpiange, Panebianco lo scrive esplicitamente.
Eppure sono entrambi decisamente antigrillini. Il cd. Italicum, inventato da Renzino, e per fortuna azzoppato dalla Consulta, avrebbe regalato proprio a Di Maio, grazie al ballottaggio, il Parlamento e quindi il Governo.
Tutti i sondaggi fatti al tempo mostravano come, grazie al voto della parte esclusa, i 5 Stelle erano di gran lunga favoriti a vincere, come del resto è accaduto in città importanti come Torino e soprattutto Roma (dove Appendino e Raggi hanno vinto contro i candidati piddini grazie al voto di quelli del centro destra).
Personalmente, l'ho scritto tante volte, non contestavo l'Italicum in versione antigrillina, per quanto sia assolutamente avversario degli ortotteri, e nemmeno boccio per principio il premio di maggioranza.
Ma concordo in pieno con quelli della Corte Costituzionale nel pretendere che il premio vada ad una forza politica sufficientemente rappresentativa del corpo elettorale.
Attualmente NESSUNA delle forze in campo sembra avere questo spessore, con i Grillini, dati per primo partito come numero di voti, al di sotto del 30% ( che nemmeno vuol dire un terzo dell'elettorato, considerato che almeno un altrettanto 30% non andrà a votare !).
Insomma non si può dare un potere di decisione così ampio ad un partito o una coalizione che non rappresentino nemmeno un terzo degli italiani aventi diritto al voto .
Giustamente la Consulta impone, per l'attribuzione del premio, che siano soddisfatti due criteri : una soglia decente di voti presi (40% almeno, a parer mio) e, in caso di ballottaggio, la partecipazione al voto di un quorum significativo degli aventi diritto (65%).
A me pare ineccepibile, e questo a prescindere di chi avvantaggia.
Certo, si obietta che in altri paesi non si hanno tutte queste attenzioni, e in Francia Macron è stato eletto con meno del 25% dei voti dei francesi, per non parlare di Trump.
Replico che A) si tratta di paesi diversi dal nostro e non mi riferisco ad un fatto antropologico (che spesso invece sento invocare per spiegare obbrobri come l'incestuosa unione di giudici e pubblici ministeri sotto l'unico titolo di magistrati) bensì al sistema istituzionale complessivo, dove il capo dell'esecutivo può avere un Parlamento con maggioranze diverse dalla sua, dove i famosi contrappesi funzionano e via così B) Non mi pare che la maggior parte della gente, compresi questi opinionisti di rango, siano molto contenti che, grazia al voto di un quarto degli americani, alla Casa Bianca ci sia un uomo discutibile come Trump.
Certo, il sistema uninominale secco, sia pure con la sua "crudeltà", appare un sistema assolutamente migliore del nostro.
Ma a parte che nemmeno in quel caso si hanno certezze di governabilità (anche nei paesi anglosassoni il bipolarismo è in crisi) , da noi ritengo assai improbabile che i partiti attuali accetterebbero mai un'ordalia del genere.
Ad ogni modo, ora questo c'è, e con questo bisogna fare i conti.
Ho già detto apertamente che voterò per il centro destra, e siccome penso che, in caso di non vittoria (ipotesi probabile, visto che tutta la coalizione non sembra arrivare al 40%) , l'alternativa meno peggiore sarebbero le piccole intese tra Forza Italia e PD, magari con l'ausilio dei piccoli centristi e della Bonino, tratterrò il respiro e metterò per la prima volta in vita mia la croce su Forza Italia.
Agli amici lettori più cari che non approveranno, vogliatemi bene lo stesso....
VERSO IL VOTO
Il diritto di contare
Dovrebbe un corpo elettorale avere il diritto di indicare,
oltre a un partito o una coalizione, una maggioranza di governo che sia
autosufficiente e alternativa alle altre?
di Paolo Mieli
Il venerdì della scorsa settimana passerà alla storia (più
probabilmente alle cronache) come il giorno del miracolo. Per ventiquattr’ore
tutte le forze politiche d’incanto si sono scoperte in pieno e totale accordo:
partiti, gruppi e movimenti si sono ritrovati, quasi all’unisono, ad alzare la
voce contro Jean-Claude Juncker che, non senza qualche goffaggine, aveva
invitato gli italiani a predisporsi ad un «governo non operativo», cioè con
modeste potenzialità d’intervento. Curiosamente Juncker accennava alla fatalità
per cui nello stesso giorno in cui da noi si terranno le elezioni, il 4 marzo,
in Germania si saprà se gli iscritti all’ Spd hanno accettato che il loro
partito entri a far parte del governo di coalizione di Angela Merkel. E citava
questa coincidenza per sottolineare la diversità tra il caso italiano e quello
tedesco. Del primo si dava pena, del secondo meno. Effettivamente molti Paesi
europei in tempi recenti sono stati costretti a contemplare l’anomalia delle
Grandi Coalizioni, ma la loro situazione è diversa da quella italiana in cui –
stante l’attuale sistema di voto - questo genere di alleanze sarà d’ora in poi
pressoché obbligatorio. Eccezione o costrizione, qui sta la differenza: lo
sappiamo benissimo, lo diciamo e ne scriviamo da mesi; ma sono cose che a
sentirsele dire d’oltre confine, suscitano in noi una qualche irritazione.
Legittimo.
Sospettiamo però che il moto di sdegno non sia stato dettato
da orgoglio patriottico, bensì dalla paura che l’allarme del presidente della
Commissione europea possa compromettere la complicata trama tessuta per dare un
governo alla prossima legislatura. Una trama che, a detta dei più, avrebbe al
suo centro un unico nome, quello dell’attuale capo del governo, Paolo Gentiloni,
rivelatosi peraltro un ottimo presidente del Consiglio. Un nome, ci sia
consentito dirlo, eccessivamente evocato, senza che coloro i quali pur lo
coprono di meritate lodi, tengano in alcun conto della delicatezza della trama
di cui si è detto. A nessuno può sfuggire infatti che, perché Gentiloni torni a
Palazzo Chigi, occorre che il suo partito e la mini coalizione raccolta attorno
ad esso ottengano dalle urne un responso convincente che sopravanzi quello
degli altri contendenti. Dopodiché è ugualmente chiaro che, ove mai vedesse la
luce, il nuovo governo Gentiloni dovrebbe essere strutturalmente diverso da
quello della precedente legislatura.
Quale sarebbe la differenza? Per rispondere a questa domanda
si è ripescato il precedente del 1976 quando un esponente della Dc fu chiamato
a guidare un esecutivo di «non sfiducia» destinato a porre le basi per un
governo di unità nazionale. Va ricordato che all’epoca la Democrazia Cristiana
aveva conquistato nelle urne una netta maggioranza (il 38,7% dei voti, contro
il 34,4 del Pci e il 9,6 del Psi). Va altresì rammentato che a guidare la nuova
compagine fu chiamato Giulio Andreotti e non Aldo Moro, più sensibile al tema
dell’incontro tra Dc e comunisti, oltretutto assai apprezzato per l’esser
reduce dall’aver pilotato, assieme a Ugo La Malfa , un governo di disintossicazione dagli anni
fanfaniani. Andreotti, diversamente da Moro, era considerato un uomo di
«bilanciamento»: pochissimi anni prima, nel ’72, aveva guidato un gabinetto di
centrodestra e fu scelto come contrappeso, di destra appunto, al nuovo rapporto
con i comunisti. Va infine riportato alla memoria che, a metà degli anni
Settanta, il terreno era stato per così dire arato dal lungo dibattito sul
«compromesso storico» proposto su Rinascita da Enrico Berlinguer a seguito del
golpe cileno (1973).
Oggi nessuno ha né teorizzato né spiegato perché sarebbe
necessario un governo che inglobi tutti i principali soggetti della politica
italiana. Ma poi sarebbero davvero tutti? Stando a ciò che si legge, la grande
coalizione all’italiana non includerebbe quello che i sondaggi indicano come il
partito destinato a ottenere il maggior numero di voti, i Cinque Stelle. Solo
Michele Emiliano vedrebbe i pentastellati primi attori di un governo che si
avvarrebbe della fiducia di un Pd derenzizzato, del partito di Pietro Grasso e
di quello di Emma Bonino (la quale però si è già chiamata fuori dalla bizzarra
combinazione). Per il resto, il coinvolgimento dei seguaci di Di Maio nel
grande gioco viene ipotizzato, al massimo, con la concessione di qualche
«poltrona istituzionale» (la
Presidenza della Camera, la guida di una commissione per la
riforma della legge elettorale o entrambe). Sta in piedi un disegno del genere?
Sia consentito dubitarne.
A questo punto si può fin d’ora prevedere che, così come
negli ultimi anni abbiamo rimpianto alcuni aspetti della Prima Repubblica, tra
qualche tempo saremo indotti a ricordare con nostalgia la stagione in cui gli
elettori ebbero l’opportunità di scegliere tra Silvio Berlusconi e Romano Prodi
e di mandare al governo, con regolarità, ora l’uno, ora l’altro. Certo, non si
trattò di governi stabili e ai protagonisti di quelle esperienze toccò fare
quotidianamente i conti con il ricatto dei partiti di dimensioni più modeste.
Ma c’è qualche possibilità che i futuri esecutivi, semmai riusciranno a venire
al mondo, siano destinati a vivere in condizioni migliori?
In genere a questo punto del discorso si è soliti scaricare
ogni responsabilità sull’attuale sistema elettorale (sul quale, ad onor del
vero, siamo stati tra i primi ad esprimere riserve). Ma dobbiamo dirci
consapevoli che, lungo i binari tracciati da ben due sentenze della Corte
Costituzionale, è quasi impossibile dar vita a una nuova legge che regoli i
meccanismi di voto in modo da rendere realizzabile la creazione di una
maggioranza omogenea e stabile in entrambi rami del Parlamento. Dobbiamo avere
l’onestà di riconoscere che nessuna delle leggi prese in esame nell’ultimo
anno, dopo la seconda sentenza della Consulta, avrebbe garantito le maggioranze
omogenee e stabili di cui si è testé detto. Neanche una. Esiste infine una
questione più di fondo. Dovrebbe un corpo elettorale avere il diritto di
indicare, oltre a un partito o una coalizione, una maggioranza di governo che
sia autosufficiente e alternativa alle altre? Certo sarà poi il Capo dello
Stato — in obbedienza al dettato costituzionale — a scegliere il capo del
governo e, almeno in parte, i ministri. Ma è consentito che nel merito possano
dire la loro anche gli elettori? La seconda Repubblica una risposta a questa
domanda l’aveva data. La terza, ancora no.
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