martedì 21 giugno 2011

SE QUESTI SONO DI SINISTRA, QUASI QUASI.....

L'articolo mi è stato segnalato da Valeriano Giorgi, di cui ho già avuto modo di dire. 

Anche Nicola Mente, così come l'Azzaro, è un giornalista di sinistra, però scrive cose di "destra", secondo un'ottica distorta...

QUARTO  STATO
In realtà dice le cose che pensa, e capita che quello che pensa lui è identico a quello che pensa un liberale.
Chi sbaglia dei due ?
Forse nessuno di noi. Forse sbagliano gli "altri".



Reverendo Referendum (Ti referendi tu, mi referendo anch’io)* di Nicola Mente


  
IL PROBLEMA DEI REFERENDUM IN GENERALE E’ ANCORA TUTTO DA AFFRONTARE, SOPRATTUTTO A SINISTRA. LO DIMOSTRA QUESTO ARTICOLO ‘CONTROCORRENTE’ DI NICOLA MENTE, REDATTORE DE “GLI ALTRI SETTIMANALE” .



«C’è il referendum, che fai, non voti? Ci troviamo davanti al seggio, poi si corre all’aperitivo. Ti va?». Tutti al seggio, con la zia e con la nonna, come recitavano gli slogan. Già, il referendum. Votare per un referendum ha il sempre quel sapore da battaglia giusta, quel gusto sano d’amarcord da indiano metropolitano, quel senso falsamente apartitico che gli conferisce un valore aggiunto. Oppure sottratto. La primissima sottrazione di due unità avviene quasi subito, se si parla di referendum in Italia. Ci sono infatti tre diverse tipologie. Il più importante è il referendum propositivo, che non è ammesso dalla nostra Costituzione. Il referendum di tipo propositivo è quello che permette al popolo di proporre una legge nuova. Il secondo, meno importante ma comunque incisivo, è quello di tipo consultivo: una specie di sondaggio in cui viene chiesto al cittadino un parere su una determinata questione. Una consultazione, insomma, che risulterebbe determinante nel caso di giudizio intermedio su una legislatura, ad esempio. Ma neanche questo è previsto dalla nostra Costituzione. L’unico che ci resta da sfruttare è il fratello inetto dei tre, quel referendum di tipo abrogativo che è diventato negli ultimi anni a tutti gli effetti la fiera dell’incomprensibile, sfruttato e stuprato con richieste assurde (come il quesito sull’abrogazione della “servitù di elettrodotto” nel 2003) che non hanno mai trovato interesse nei cittadini e che in pochissimi riescono a comprendere. Una tipologia questa assolutamente inutile: a ogni abrogazione di legge infatti, ne può essere promulgata un’altra con simili caratteristiche o, peggio ancora, può crearsi un vuoto legislativo che potrebbe creare più che un problema alla stessa normativa in questione. Eppure, i paraocchi e la scarsa memoria ci impediscono di poter toccare con mano le falle di questo processo. Nel 1995 fu abrogata la norma che faceva della RAI un servizio pubblico, ma il canone timbrato Via Mazzini continua regolarmente ad arrivare a casa. Due anni prima, nel 1993, l’indignazione da mille lire dell’Hotel Raphael partorì il quesito referendario sull’abrogazione del famigerato finanziamento pubblico ai partiti, trasformatosi poi in “rimborso elettorale ai partiti”. Nel 1987 venne abrogata la norma che limitava la responsabilità ai magistrati, salvo poi circoscriverla, un solo anno dopo, ai soli casi di dolo o di colpa grave. Senza parlare della consueta “revisione parlamentare”. Insomma, una pistola ad acqua (rigorosamente pubblica) puntata contro la Luna. In fondo, i principali promotori di questa corsa alle urne sono stati i vendoliani e soprattutto l’Idv di Di Pietro, che non ha mai nascosto (con la sua solita efficacia dialettica) la vera madre del quesito referendario: l’antiberlusconismo militante. Diversa la posizione del PD che, inizialmente, ha lasciato i “cuginetti antipatici” a combattere in prima fila per accaparrare possibilità (remote, visto gli esiti dei referendum precedenti) di quorum. Tutto fino alla seconda tornata amministrativa, quando i vertici di Via del Tritone han capito l’antifona e si sono buttati nella mischia, intuendo un probabile tornaconto da un evento che fino a qualche mese prima non veniva neanche preso in considerazione. Un atteggiamento identico quello di Futuro e Libertà, seppur in toni (ovviamente) più blandi e moderati. Tutti uniti e colorati, in una domenica di sole in mezzo a perturbazioni monsoniche, almeno qui al Nord. Tutti pronti al colpo di grazia. Lame impugnate e pronte al colpo, molle pronte alla carica. Un martellamento pneumatico insistente esploso sull’onda del trionfo targato “Ѐ colpa di Pisapia”. La lenta discesa del monopolio berlusconiano è inevitabile e tangibile (da almeno un anno e mezzo), e le tempistiche di fallimento non potrebbero essere mai state inferiori alle attuali. Il mondo “Belle fighe, promesse e tono da amici in spiaggia” se ne va in soffitta, pronto alla sua razione di monetine. Accade dunque che un pretesto diventi un evento nazionale di portata gigantesca, in cui l’informazione pedestre per il Sì sovrasta la tentata e altrettanto pedestre propaganda astensionista o “negazionista”. Tutti a votare senza chiedersi troppo, oltre a un “Berlusconi vattene”. Una fine auspicata, necessaria e naturale.  
(...) 
 La faccenda che sorprende più di altre è la cecità sull’induzione al burattinismo populista che questo referendum ha portato. Il voto era necessario per fare numero, e tutti (o quasi) abbiamo seguito i diktat imposti dai processi storici, quelli che si nascondono abilmente tra pagine di libri, parole sonanti dall’inutilità di piombo, e cartelloni colorati. Tutti a far fuori Berlusconi e la sua cricca, dunque. Il 12 e 13 giugno è diventata l’occasione per il bullismo di periferia contro un cadavere, vivendo l’esaltazione del Carro dell’Italia migliore. L’Italia che vince e che corre nell’ombra. L’Italia che muove cultura. L’Italia di Scalfari che pontifica a Otto e Mezzo. L’Italia della rabbia cieca, l’Italia che cambia e che ti cambia. L’Italia che non ha potuto chiedere altro che una spallata da parte della gente ormai imbonita e calata nel contesto di distruzione del nemico, anche attraverso questioni oscure e sempre poco comprese. La questione dell’acqua, ad esempio, era talmente complessa che in pochi han recepito cosa in realtà si nascondesse in quella distinzione tra “pubblico” e “privato”, in un mondo dove gli ingegneri e i certificatori di qualità, insieme a manutentori e intermediari vari manterranno il clientelismo vigente in ogni settore, specialmente in quello dell’approvvigionamento idrico, in cui la parola magica “energia” fa scattare meccanismi che di “cosa pubblica” non han neanche lontanissime sembianze. Il quesito non riguardava soltanto l’acqua, ma la gestione tutti i servizi pubblici locali. L’articolo 23 – bis del 2008, il famoso e noiosissimo articolo di legge che tanto ha fatto discutere, verrà abrogato. Le possibilità di soluzione ora sono due: con la prima, torna in vigore l’articolo 113 del TU degli enti locali, che permette la gestione sia ad enti pubblici, che a privati. Dunque non cambia niente. La seconda, molto più progressista, prevede una normativa adatta ai principi comunitari. Già, l’Europa. Così scopriamo che la gestione privata dei servizi idrici non è questione italiana né berlusconiana, ma europea. Nel giro di qualche anno, l’universo del “patrimonio acqua” potrà essere gestito in via privata (o meglio, sotto “regime di concorrenza”) su indicazione comunitaria, senza che nessuno di noi possa fare il benché minimo sforzo per poter cambiare le cose. La questione sul nucleare credo che non meriti ulteriori svisceramenti, vista la natura più palese del dibattito e del confronto: ci si aspetta una campagna simile sul carbone, che purtroppo è molto lontana. Ci si attende una sponsorizzazione delle energie alternative. Ci si attende una chiarezza a livello transnazionale, che pare non esserci. Ci si attende una regolamentazione dei prezzi e delle tariffe dei paesi fornitori che, sfruttando anche l’energia nucleare (quella che se tradisce loro tradisce anche noi) producono e vendono energia elettrica al Bel Paese. Ci si attende una politica energetica di rivoluzione globale, e non nata dal gusto di piagnisteo. Arriviamo al legittimo impedimento: pare sorprendente pensare alla superficialità con cui inevitabilmente si affronti il tema. Il Presidente del Consiglio ha infatti vari modi per evitare un processo, e non sarà il “legittimo impedimento” abrogato a rendere le cose più difficili. Berlusconi affronterà i giudici con le proprie armi, senza essere minimamente intaccato dal Sì referendario. La questione sembra piuttosto gettare molto fumo negli occhi ai cittadini, convincendo tutti (o quasi) del fatto che possano davvero rendere complicata la voglia di impunità del Premier, usando la democrazia come strumento di potere. I modi per evitare e per distorcere l’esito di un processo sono molti, non tutti ortodossi, ma tutti contemplabili. Viviamo in un paese che ha un profondo bisogno di una riforma giudiziaria, anche per queste croniche patologie che affliggono (ad ogni strato) la macchina delle toghe, senza badar troppo al colore. Certo è che Berlusconi non gode momentaneamente del favore delle stelle, e questo periodo buio dal punto di vista zodiacale comporterà il suo lento declino, giunto al penultimo stadio.
 E Noi? Noi stiamo lì, al gradino più basso del suo. Ormai è destino, che ci vogliamo fare.

Nessun commento:

Posta un commento