martedì 14 maggio 2013

LA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA DI KABOBO. MA "NOI" DOVE ERAVAMO ?

 E' morto il ragazzo di 21 anni vittima della follia di Kabobo
So di cacciarmi in un guaio trattando senza spirito omicida quanto accaduto a Niguarda, oggi poi che è arrivata la notizia della morte della terza vittima dell'aggressione, Daniele Carella, il ragazzo di 21 anni che distribuiva i giornali porta a porta. Anche io, come molti, sono rimasto colpito dalla sfiga del neo ministro Kienge che aveva appena finito di parlare di ius soli e di abolizione del reato di immigrazione clandestina, che uno di questi uccide tre  persone e ne ferisce altrettante. Quando i problemi sono grandi e gravi, ad affrontarli bisognerebbe mandare persone preparate e lucide, non soddisfare il desiderio di novità di certa piazza.  Ciò posto, subito dopo il cordoglio per le vittime, ho pensato con preoccupazione al fatto che quest'uomo, Kabobo, abbia potuto aggirarsi per più di un'ora per le strade vivendosi  la sua giornata di ordinaria follia senza che nessuno avvertisse le forze dell'ordine.
Intanto non lo hanno fatto le prime tre vittime, che per loro fortuna sono riuscite a salvarsi. Ok lo sconvolgimento per un'aggressione del genere, il rischio della vita, però possibile che a NESSUNO di loro sia subentrato un minimo di lucidità per prendere il cellulare e chiamare 112 o 113 ?
Il discorso poi riguarda anche la gente del quartiere...Va bene,  era molto presto, le strade erano vuote, ma possibile che non ci fosse proprio NESSUNO ??  Eppure in un'ora e mezza almeno sei sfortunati Kobobo li ha incontrati....nessun altro ? Anche dalle case, sentendo magari le urla ? Mi piacerebbe pensare che sia in effetti così, che veramente NESSUNO abbia visto o sentito nulla.
Ma non ci credo.
E così mi tocca leggere le discettazioni psicosociologiche sull'individualismo crescente, la mancanza del senso di bene collettivo, che francamente mi lasciano sempre contrariato. Io sono un individualista, di fondo, ma nella mia vita, le rare volte in cui mi sono trovato in situazioni balorde, che non mi riguardavano direttamente, (certo mai una cosa siffatta, ma cacchio mica chiedo di affrontare un uomo armato di piccone. Solo una telefonata !!) non mi sono girato dall'altra parte. Non bisogna essere affetti da "collettivismo" per farlo, basta pensare che nella vita ci sono le cose giuste e quelle sbagliate. E bisogna cercare di fare quelle giuste. Luca Sofri dice che era l'insegnamento del padre...si vede che lo era anche del mio.
Il Corriere ha poi postato una raccolta di commenti di lettori, dove c'è di tutto : razzismo, violenza, prudenza, critiche alla politica (Pisapia), alle forze dell'ordine (con un ragazzo che citava un paio di sconcertanti episodi in cui aveva chiamato per minuti e minuti i due numeri di SOS senza esito !!).
Io resto della mia idea, tradotta in un bel motto che sentii per la prima volta in dialetto napoletano : "Fa ciò che devi, accada che può".
Ecco l'articolo socio pedagogico del Corriere. Se vi va....


l killer del piccone A NIGUARDA

La paura che ci spinge a non chiamare il 112

Un'ora e mezza prima che Kabobo sia segnalato. Pisapia: ritardo incomprensibile. Bonomi: perso senso di comunità

Kabobo Madam (LaPresse)Kabobo Madam (LaPresse)
MILANO - Un'ora abbondante. Tra le 5 e le 6. Con un passaggio chiave: in quell'ora Mada Kabobo, killer di Niguarda, passa da aggressore minaccioso (con in mano una spranga), a killer invasato (che colpisce e uccide con un piccone). L'ossessione omicida degenera e si autoalimenta con i primi tre attacchi, quelli che non hanno avuto conseguenze gravi. In quel lasso di tempo, forse, Kabobo poteva essere fermato. Bastava prendere un cellulare e premere i tasti: 1-1-2. Le «gazzelle» dei carabinieri sarebbero arrivate in zona cercando un ragazzo di colore con una maglietta grigia e un bastone, o un piccone, in mano. Ma le prime tre vittime, per loro stessa ammissione, ognuna con una storia e una motivazione diverse, non l'hanno fatto. Perché?
 


(Fotogramma) 
Bisogna ascoltare prima le loro risposte. Andrea Carfora, 24 anni, colpito da Kabobo con una sprangata su un braccio in via Terruggia, prima delle 5, è scappato nei giardini; ha atteso, poi è rientrato in casa; si è presentato in pronto soccorso solo molto più tardi. «Sono stati momenti di terrore. Ho pensato solo a fuggire, sinceramente non so perché non mi sia venuto in mente di chiamare le forze dell'ordine». Antonio Niro, 50 anni, assalito in via Passerini alle 5 e 20, non si è accorto di nulla. Colpito alla testa da dietro: «Sono crollato a terra, ho battuto col volto sull'asfalto, ho perso gli occhiali e mi sono rotto il naso. Sono svenuto e quando ho ripreso conoscenza la strada era deserta», ha raccontato ieri dal citofono della sua abitazione, accanto alla moglie, dopo essere stato dimesso dall'ospedale. «Ho barcollato fino a casa, ho impiegato tempo». Aggiunge la donna: «Non abbiamo neppure realizzato di cosa si trattasse, per questo non abbiamo pensato di avvertire i carabinieri, ma solo l'ambulanza. In ospedale, quando sono arrivati altri feriti, abbiamo capito». Drammatica serie di aggressioni a colpi di piccone Drammatica serie di aggressioni a colpi di piccone     Drammatica serie di aggressioni a colpi di piccone     Drammatica serie di aggressioni a colpi di piccone     Drammatica serie di aggressioni a colpi di piccone     Drammatica serie di aggressioni a colpi di piccone
Kabobo ripreso dalle telecamere con il piccone in spalla (Splash News)Kabobo ripreso dalle telecamere con il piccone in spalla (Splash News)
La terza vittima, Antonio Morisco, si salva: seguito alle spalle da Kabobo, riesce a fuggire nel portone del suo palazzo prima che il ragazzo ghanese lo attacchi. Ha spiegato: «Mi aveva spaventato, ma non ho pensato a quello che poteva succedere. Per me era solo un tipo strano con qualcosa che assomigliava un bastone. Come potevo prevedere cosa avrebbe fatto dopo?». A questo punto, sono le 6 del mattino. E si chiude qui l'ora abbondante delle prime tre aggressioni. E delle tre telefonate non fatte.
Finiscono così le possibilità di fermare Kabobo, che da questo momento inizia a picchiare per uccidere. In una sequenza forsennata e ravvicinatissima: tra le 6 e 20 e le 6 e 30, un uomo ucciso e due in fin di vita. La prima chiamata al 112 dei carabinieri è delle 6 e 28. Ieri anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, rifletteva con amarezza: «È assolutamente incomprensibile che nessuno abbia avvisato le forze dell'ordine». E così si ritorna alla domanda chiave: perché? Ernesto Savona, criminologo dell'università Cattolica di Milano e direttore del centro Transcrime , prova fare un'ipotesi: «La paura può provocare comportamenti in qualche modo "omertosi". Credo che queste persone non abbiano messo a fuoco il reale pericolo. Purtroppo viviamo in un contesto di legami labili e, una volta in salvo, non si pensa al rischio che qualcun altro potrebbe correre». Mauro Magatti, che in Cattolica insegna sociologia, aggiunge: «Facciamo parte di una società individualista con uno scarso senso della cosa pubblica, come conferma l'episodio di sabato mattina». E «premesso che, come Kabobo, migliaia di immigrati vivono in condizioni umanamente opprimenti, sospesi nel nulla, impigliati nelle reti della legge», resta il fatto che in Italia la «dimensione che ci vede cittadini attivi a fianco delle forze dell'ordine è ai minimi storici».
Una società dalle maglie troppo larghe, in cui il bene individuale prevale su quello comune e ci si sente al sicuro solo tra le mura di casa. Poco importa che si tratti di Milano o di un paesino di montagna. Ne è convinto un altro sociologo, Aldo Bonomi: «Certe tragedie possono accadere ovunque anche se, ovviamente, nei piccoli Comuni il controllo è più forte». Bonomi analizza: «Sabato mattina il meccanismo di controllo e di tutela che caratterizza le comunità non è scattato. Non tra gli italiani, che non hanno saputo mobilitarsi, non tra gli stranieri, che non hanno protetto il loro connazionale, visto che Kabobo è del tutto estraneo alla sua gente». Il risultato è evidente: «Due gruppi drammaticamente feriti». In cui prevalgono rabbia e sospetto. «Perché se non c'è una comunità di cura, rimane solo quella del rancore».
Diffidenza, individualismo, sfiducia. Mali contemporanei spiegati dalla sociologia. Anche se psicologi e psichiatri rilevano altri aspetti di questa vicenda. Primo: chi è vittima di un attacco così «imprevedibile e anonimo» subisce uno stress che può impedire di reagire razionalmente. Lo sottolinea Gustavo Pietropolli Charmet: «In questi casi rendersi conto dell'accaduto può non essere immediato». Un dato però è certo: «La liquidità dei legami di oggi rende quasi impossibile identificarsi nel bene comune, nelle ragioni della collettività».
Esclude la responsabilità delle vittime anche lo psichiatra Vittorino Andreoli: «Il centro della questione è la paura: chi corre un pericolo mortale si concentra solo sulla sua sopravvivenza, non pensa a nient'altro. Quando c'è di mezzo la vita prevalgono le dinamiche animali. Queste persone non hanno nemmeno immaginato che altri potessero correre lo stesso rischio». Piuttosto, «dov'erano gli altri?». Lo studioso non vuole sentirsi dire che era mattina presto, che in giro non c'era nessuno, che era sabato: «Milano è Milano. Siamo sicuri che alle finestre non ci fosse nessuno? Che nessuno abbia visto niente? Qui sì che mancano il senso sociale e la fiducia nelle forze dell'ordine, percepite solo come inquirenti». Il problema è proprio questo: «Viviamo nella società dell' io , incapaci di capire che l'io sta bene solo se gli altri stanno bene. Quello che è successo a Niguarda non va affrontato pensando solo a sei persone, ma guardando in faccia la collettività e i suoi principi. Credo che troppi abbiano voltato lo sguardo». Mentre Kabobo avanzava in strada a caccia di vittime.


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