sabato 18 maggio 2013

L'IMU, IL FISCO E LA MANCANZA DI UOMINI DI STATO


Le analisi di Luca Ricolfi sono sempre amare, e da un po' di tempo un po' di più... Il guaio più grande è che è difficile dargli torto. Prendiamo l'articolo di ieri sulla Stampa, che prende spunto dalla questione IMU e l'abolizione della stessa sulla prima casa.
Ricolfi sostanzialmente osserva :
1) ha tappato un buco immediato creandone altri di valenza peggiore. In genere le tasse hanno questo effetto, perché sono depressive dell'economia. Servono per pagare i servizi e per la redistribuzione della ricchezza, ma sono come un veleno, che in piccole dosi può anche essere utile ma se sbagli quantità le conseguenze sono gravi fino alla morte. A fronte di 25 miliardi di entrate (però cash...vuoi mettere ? ) , si sono creati danni all'edilizia, che da sempre è uno dei settori trainanti dell'economia, alle famiglie, all'occupazione. Il rapporto costi e benefici è attivo ? Ricolfi dice di no.
2) adesso che l'Imu c'è, e le casse statali e municipali si sono subito abituate a farci conto, toglierla crea problemi di bilancio. Ricolfi fa un'osservazione concreta : dato che se vogliamo ripartire, come tutti a parole dicono, le tasse le dobbiamo abbassare, forse non è dalla prima casa che conviene iniziare, ma da settori più funzionali alla produzione : capannoni , stabilimenti, terreni agricoli.
3) In realtà questo sarebbe solo un passo, per quanto utile (se aspettiamo quello che, DA SOLO, produce la svolta, rischiamo di cadere nel "benaltrismo", un modo molto conosciuto per non fare mai nulla). L'abbattimento delle tasse necessario richiede il reperimento di risorse più importanti, e per far questo l'unico modo è TAGLIARE LE SPESE. Questo lo dicono tutti, da anni, ma poi non si fa mai perché ogni settore interessato si arrocca a testuggine per difendere la posizione di favore acquisita.
Non accade solo da noi, non siamo i soli "egoisti". Succede oggi in Francia, e infatti Hollande è lì che cerca di recuperare spazio per fare ulteriori debiti , e accadde l'altro ieri in Germania, dove invece Schroeder, sempre un socialista ma più avveduto del Capo dell'Eliseo, capì che dovevano essere avviate riforme dolorose e strutturali. Lo fece, pagandone il prezzo politico (perse le elezioni e lasciò la guida del partito) ma guadagnando, nel tempo, la gratitudine della maggior parte dei tedeschi e la fama di uomo di Stato.
E infatti Ricolfi proprio questo lamenta : la mancanza di statisti, capaci di tirare dritto convinti di fare la cosa giusta.
Buona Lettura

Per il Fisco servono scelte da statisti

Come era facile prevedere, gran parte del dibattito sulle tasse si sta concentrando sull’Imu. Per mettere un po’ d’ordine, credo sia bene tenere ben distinte due questioni: che cosa è successo dopo il passaggio dall’Ici all’Imu, che cosa conviene fare ora.
Sul «che cosa è successo» mi pare che i dati elaborati dalla Fondazione David Hume e pubblicati nei giorni scorsi su La Stampa lascino pochi dubbi. Nel passaggio dal 2011 al 2012 il settore edilizio ha ricevuto il classico colpo di grazia: crollo della produzione, crollo delle compravendite, distruzione di posti di lavoro e – soprattutto – perdita di valore del patrimonio immobiliare. E’ importante sottolineare che non si è trattato della mera continuazione di un trend negativo in atto da alcuni anni, ma di un vero e proprio «scalino» che ha trascinato improvvisamente verso il basso tutti gli indicatori del mercato edilizio. In soli 12 mesi, fra la fine del 2011 (insediamento del governo Monti) e la fine del 2012 il prezzo medio delle abitazioni esistenti è calato di circa l’8%: in concreto vuol dire che, per raccogliere 15 miliardi di tasse per sé stessa, la Pubblica amministrazione ha bruciato almeno 400 miliardi di ricchezza dei cittadini.

Si potrebbe pensare che questo sacrificio richiesto agli italiani sia stato distribuito in modo relativamente equo, e che a pagare di più siano stati i «ricchi», spesso possessori di più di una casa. Ma non è affatto così. Il conto dell’Imu è stato pagato innanzitutto dalle fasce più deboli della popolazione: operai edili (spesso immigrati), che hanno perso circa 100 mila posti di lavoro, e possessori di abitazioni periferiche o di scarso pregio, il cui valore si è ridotto ben più dell’8% (come noto quando i prezzi medi scendono, quelli delle abitazioni di pregio subiscono piccole limature, mentre quelli delle abitazioni popolari crollano). Di qui uno stato di incertezza e preoccupazione per il futuro, particolarmente grave per le famiglie che avevano acquistato la casa con un mutuo, che si sono trovate a pagare una super-tassa su un bene non ancora pienamente posseduto. Di qui un effetto negativo sui consumi, che non dipendono solo dal reddito ma anche dalla ricchezza. Di qui, soprattutto, un cambiamento epocale della percezione del «bene casa»: oggi chi possiede una casa non solo non può più pensare di aver messo i soldi al sicuro (perché i prezzi scenderanno ancora), ma deve pensare che il mero possesso di un immobile ha un costo fisso, una sorta di «affitto», di cui non è più in alcun modo possibile ignorare l’incidenza.
Ne valeva la pena? Se il problema era non cadere nel baratro del collasso finanziario, non era meglio (meno peggio) un prelievo straordinario, tipo quello che fece Giuliano Amato nel 1992?
In una recente trasmissione televisiva, a Lilli Gruber che gli domandava se c’era almeno qualcosa che pensava di aver sbagliato, un errore che oggi non ripeterebbe, Mario Monti ebbe a rispondere che no, per quanto si sforzasse proprio non gli veniva in mente nulla che non rifarebbe. Nulla sugli esodati, nulla sulla riforma del mercato del lavoro, nulla sui pagamenti della Pubblica Amministrazione, nulla sull’Imu. Nessun dubbio retrospettivo, insomma. Mi chiedo se, di fronte all’agonia del settore edilizio e ai dati che la documentano, oggi sarebbe ancora così certo della bontà del lavoro svolto.

Resterebbe il «che cosa fare», ora che i buoi sono scappati. Difficile dirlo, se non altro perché ormai è troppo tardi, e una crisi come quella in cui è precipitato il settore delle costruzioni non si ferma facilmente, neppure con l’abolizione per tutti dell’Imu sulla prima casa. L’unica cosa che mi sentirei di dire ai politici è di provare, per una volta, a essere chiari e coerenti.
Arrivati a questo punto, come ha osservato Alberto Mingardi nel suo intervento di qualche giorno fa, l’unico argomento solido per abolire I’Imu sulla prima casa è che tutti i maggiori partiti l’hanno promesso in campagna elettorale, sia pure in misura e con modalità diverse. Se si prescinde da questo argomento (tutt’altro che peregrino, comunque) il quadro cambia sensibilmente.

A regime, il problema delle tasse sulla casa non è l’ammontare dell’imposta più odiata (i 4 miliardi del’Imu sulla prima casa) ma è il loro ammontare complessivo, che ormai supera i 50 miliardi di euro l’anno, pari all’1% del valore del patrimonio edilizio (circa 5000 miliardi): con un rendimento lordo degli immobili che oggi si attesta sul 2-3%, il fatto che quasi la metà del reddito se ne vada in tasse più o meno direttamente connesse all’abitazione non può che avere effetti negativi sul valore del patrimonio edilizio, ossia sulla principale fonte di sicurezza degli italiani. Rendere più progressive le imposte sulla casa non risolve il problema, perché il crollo del mercato immobiliare non risparmia nessuno, e anzi colpisce più severamente i possessori di abitazioni di scarso pregio.

Se invece il problema è quello di far ripartire la crescita, allora dovremmo avere il coraggio – in materia di Imu – di dare priorità assoluta all’alleggerimento delle aliquote sui fabbricati connessi alla produzione: stabilimenti, capannoni, terreni agricoli. Dimezzare l’imposizione su questo genere di beni costerebbe più o meno come abolire l’Imu sulla prima casa ma, verosimilmente, avrebbe un effetto sulla crescita più significativo.

Se infine, come si sente spesso affermare, il problema numero uno è l’occupazione, è possibile che le tasse su cui agire prioritariamente siano altre ancora. Alcune, come l’Ires, non si possono nemmeno nominare, perché sanno di aiuto ai «padroni», ancor oggi da molti percepiti più come sfruttatori che come creatori di posti di lavoro. Altre, come il complesso di prelievi che costituisce il «cuneo fiscale» (Irap sul costo del lavoro, contributi sociali), sono politicamente più abbordabili, perché permettono di dare un contentino sia alle organizzazioni del lavoratori sia a quelle dei datori di lavoro. Il dubbio, tuttavia, è che per rendere il lavoro davvero meno caro e le buste paga dei lavoratori davvero più pesanti, ci vogliano risorse così ingenti che nessun governo (italiano) troverà mai il coraggio di reperirle. Perché reperirle significherebbe, inevitabilmente, scatenare le proteste di associazioni, corporazioni, sindacati, forze sociali. Provate a toccare pensioni d’oro e costi della politica (si potrebbero risparmiare 3-4 miliardi di euro). Provate a combattere davvero le false pensioni di invalidità (8-10 miliardi di euro). Provate a portare l’Iva al 25% (come i lodatissimi Paesi scandinavi). Provate a cancellare sussidi e agevolazioni a imprese e settori. E vi accorgerete che la forza dell’esistente è enorme, mentre quella del cambiamento è molto modesta.
Insomma, comunque la si rigiri, si torna sempre al nodo di partenza: per cambiare qualcosa bisogna scontentare qualcuno, e un simile lusso possono permetterselo solo gli statisti, non certo i politici dei nostri giorni.

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