Curioso di storie. Mi piace ascoltarle e commentarle, con chiunque lo vorrà fare con me.
lunedì 25 novembre 2013
IL FUTURO NON FA MAI QUELLO CHE VOGLIAMO NOI
Bello l'articolo di Fugnoli di questa settimana, con un taglio ancora più "trasgressivo" del solito, trattando temi freddi e in genere astrusi ai più, come quelli economici, in modo da provare a renderli inellegibili, quasi affascinanti.
Questa volta il "nostro" fa un excursus storico per dimostrare come le previsioni sembrano fatte apposta per essere smentite e ne fa un lungo e veloce elenco, partendo dal 1900.
Magari anche quelle, tutte cupissime, di questo periodo, seguiranno la stessa sorte.
C'è da augurarselo, anche se margini di peggioramento ancora ci potrebbero essere...
Buona Lettura ai pochi coraggiosi, esperti e non (io tra questi ultimi), che seguono con piacere il brillante osservatore di questi temi.
Il futuro non fa mai quello che pensiamo noi
In un suo libro del 2009, The Next 100 Years, George Friedman passa in rassegna le previsioni di consenso sui successivi venti e più anni in momenti diversi del secolo scorso e di questo.
Nel 1900 qualunque persona ragionevole, interrogata sul futuro, avrebbe previsto una continuazione del dominio europeo sul mondo e, grazie al processo di globalizzazione in pieno corso, una lunga fase di pace e di prosperità.
Nel 1920, con l’Europa in pezzi, tre imperi crollati e l’apparizione come protagoniste di tre potenze extraeuropee (Stati Uniti, Unione Sovietica, Giappone) chiunque avrebbe ipotizzato una Germania indebolita per sempre e una lunga fase di pace dopo i 16 milioni di morti della Grande Guerra.
Nel 1940, con una Germania più forte che mai, in piena espansione militare in Europa e ben coperta sul fronte orientale grazie al patto Molotov-Ribbentrop, sarebbe stato quasi ovvio prevedere una lunga fase di controllo tedesco sull’Europa e, con il Giappone, sull’Asia.
Nel 1960, con la Germania sconfitta e divisa, i grandi imperi coloniali europei al collasso e l’Europa stessa divisa in due sfere d’influenza americana e sovietica, il consenso generale prevedeva una continuazione della Guerra Fredda con una netta supremazia degli Stati Uniti, la superpotenza che controllava i mari.
Nel 1980, con gli Stati Uniti sconfitti in Indocina, con l’Iran perduto e una presidenza Carter debole e incapace di arginare la crisi economica e il dissenso interno, l’Unione Sovietica appariva la potenza del futuro, in espansione veloce in Africa e in Asia centrale. L’Occidente sembrava destinato a una lunga fase di stagnazione e decadenza, l’economia mondiale aveva completato il suo processo di deglobalizzazione. Quanto alla Cina, già denghista da due anni, nemmeno i sinologi avevano la più pallida idea del boom economico trentennale che stava partendo.
Nel 2000, con l’Unione Sovietica scomparsa dalla scena, dominava ancora l’idea espressa otto anni prima da Francis Fukuyama sulla Fine della Storia, una sorta di pace perpetua kantiana sotto la tutela dell’unica iperpotenza americana. Il futuro appariva politicamente noioso ma oltremodo eccitante economicamente. Nonostante la borsa ai massimi storici venivano pubblicati Dow 36000 e, poco dopo, Dow 100000, due libri che illustravano i nuovi target resi possibili, si pensava, dalla New Economy della rete (oggi il Dow è a 16000). La Cina era in pieno boom, ma solo gli specialisti di mercati emergenti la seguivano. Per i grandi modelli econometrici delle banche centrali la Cina era quantité négligeable, non veniva nemmeno calcolata, non esisteva.
Nel 2013, due crash di borsa e una Grande Recessione dopo, il Fondo Monetario organizza un convegno in onore di Stanley Fisher con Rogoff, Krugman e Summers che si interrogano sconsolati sul perché il mondo cresca così poco da cinque anni e non offra prospettive molto migliori per i prossimi cinque. La stagnazione tecnologica, la rarefazione degli investimenti produttivi e la crisi della produttività sono oggetto di libri e di studi accademici. Nel frattempo, su un altro pianeta, le borse respirano a pieni polmoni l’aria frizzante d’alta quota e prevedono per loro stesse orizzonti di gloria. Quanto alla Cina, ombre e sospetti di ogni tipo le si addensano intorno da un paio d’anni, ma quando si tratta di mettere un numero nelle caselle di
previsione sul Pil dei prossimi anni, nemmeno i più negativi osano scendere sotto il 5 per cento. La stragrande maggioranza, incluso il Fondo Monetario stesso, continua dal canto suo a proporre esclusivamente variazioni sul tema del 7 per cento di crescita, a perdita d’occhio.
Nel 2033, scrive un attivissimo Summers in un altro studio pubblicato con Lant Pritchett (Asiaphoria Meet Regression to the Mean), il Pil mondiale passerà dai 73 trilioni di dollari di oggi a 160 trilioni (in dollari di oggi) se tutti i paesi continueranno a crescere alla loro velocità attuale. Se però Cina e India, un bel giorno più vicino che lontano, dovessero mettersi a crescere come tutti gli altri, e cioè del 2 per cento all’anno, il Pil del 2033 sarebbe di soli 118 trilioni.
Mancherebbero quindi all’appello 42 trilioni, pari a due volte gli Stati Uniti del 2033. Il mondo e le borse fanno oggi i loro conti dando per scontati i 160 trilioni. Abbiamo un piano B se ce ne troviamo solo 118? E perché mai la Cina dovrebbe avere scoperto, unico caso nella storia umana, la formula della crescita esplosiva perpetua? Non sta forse normalizzandosi, la Cina? Non sta forse aumentando la leva finanziaria e sviluppando consumi interni e welfare come abbiamo fatto noi, anche dissennatamente, nei decenni passati? Non sta forse invecchiando rapidamente anche lei?
Come si può ben vedere, nel secolo abbondante che ci separa dal 1900 abbiamo costruito e affinato modelli econometrici sempre più sofisticati e abbiamo acquisito una potenza di calcolo incomparabilmente maggiore, ma non è cambiata nemmeno di una virgola la natura estrapolativa delle nostre attese di pancia e delle nostre previsioni di testa. Modellizziamo sempre meglio il presente e lo proiettiamo elegantemente nel futuro, ma non abbiamo nessuna capacità di prevedere il nuovo.
Riportiamoci dunque entro orizzonti più modesti, da tre a cinque anni, e torniamo al seminario del Fondo Monetario, molto utile per capire l’aria del tempo.
Si è parlato poco di Quantitative easing e di tapering. Si è cioè parlato poco di quello che è servito finora a tenere buoni i mercati e a farli sentire bene, ma che ha anche creato una forma di dipendenza sempre più accentuata. Si è parlato invece molto di come aggredire la malattia della bassa crescita con cure non palliative, ma radicali. Si è convenuto sul fatto che i tassi nominali dovrebbero essere abbondantemente negativi e non positivi come sono adesso (anche se in molti casi solo simbolicamente).
Poiché i tassi nominali negativi sono tecnicamente molto difficili da applicare (solo persone dotate di grande altruismo sottoscriverebbero bond in cui sono loro a pagare la cedola al debitore) l’unico modo per avere tassi reali abbondantemente negativi (e non solo moderatamente negativi come oggi) è quello di lasciare i tassi a zero e di fare salire l’inflazione, come sta provando a fare Abe in Giappone.
Per fare salire l’inflazione bisognerebbe fare come si è fatto a Weimar o in Zimbabwe, dove lo stato ha stampato soldi per spenderli subito. Questa è la via fiscale all’inflazione. La via monetaria è più difficile, perché si rischia di dare liquidità alle banche la mattina per vedersela ritornare in banca centrale la sera. Per far sì che questa liquidità venga prestata in giro in Europa si sta pensando a tassi negativi per i depositi in banca centrale. Ma anche questo non basta.
Ecco allora che si pensa di impegnarsi a tenere i tassi a zero per un periodo lunghissimo, facendo capire che questo impegno non sarà subordinato all’inflazione o al tasso di disoccupazione. In pratica le banche centrali si taglieranno i ponti dietro le spalle, incolleranno l’acceleratore al pavimento della macchina e si legheranno le mani e i piedi. È la vecchia idea di Krugman di una banca centrale che si comporta da folle per apparire folle, creare sconcerto e indurre tutti a spendere e a indebitarsi finché c’è tempo.
Il Quantitative easing, in questo contesto, perde importanza. Verrà gradualmente ritirato per essere eventualmente reintrodotto nel caso l’economia torni a rallentare.
Prima o poi il mercato si convincerà del fatto che l’orientamento delle banche centrali è in realtà sempre più espansivo e si rassegnerà alla perdita del suo giocattolo.
Il tapering, se ben gestito, servirà a frenare l’ardore dei mercati e a coprire l’adozione di fatto dell’arma-di-fine-di-mondo, il targeting del Pil nominale su scala globale. Per questo, in questa fine d’anno e nel 2014, la fasi di paura legate al tapering saranno occasioni d’acquisto in borsa.
In queste ore stiamo vivendo una di queste fasi. Questa volta sarà superficiale e breve, così che si possa ritornare sui massimi per fine anno.
Dopo il 2014, finito il Qe, l’ardore dei mercati, se tutto andrà secondo programma, sarà frenato dall’aumento dell’inflazione. Il giorno della pubblicazione dei dati sui prezzi diventerà uno dei più importanti del mese. I mercati lo guarderanno con ansia, ma la loro reazione durerà poco. Sapranno infatti che, pochi minuti prima del dato, la banca centrale si sarà sistemata una benda sugli occhi e si sarà girata dall’altra parte, fischiettando.
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