giovedì 15 maggio 2014

SULLA SPESA PUBBLICA ALTRO CHE BUON PADRE DI FAMIGLIA


C'è molta gente che si vanta di non frequentare FB e i socialnetwork in generale. Spesso sono gli stessi che si compiacciono di non vedere la tv. Io appartengo al popolo che fa entrambe le cose, mi piace (ovviamente non tutto, anzi, diciamo con una selezione piuttosto severa) e ritengo di trarne profitto.
Certo, come in tutte le cose, è fondamentale l'uso, il modo.
Oggi, per esempio, mi sono imbattuto nell'articolo scritto su una rivista on line "Strade", che l'autore, Amedeo Panci, aveva postato sul gruppo Economia, Fisco, Commercio, l'ho letto (tocca leggere, non soltanto compiacersi di quello che si scrive) e mi è piaciuto molto, ancorché alla fine mi siano sorti dubbi e domande, cui spero Panci vorrà rispondere.
Il tema era la Spesa Pubblica, e la presa di distanza da alcune vulgate troppo semplicistiche non solo dei politici, che si potrebbe anche capirli, sempre a caccia come sono di facili consensi, ma anche di dotti economisti. In particolare questi ultimi difettano nel tracciare la linea del "viaggio". Analizzata bene la situazione di partenza, indicano l'arrivo. Certo, non ignorano che tra i due punti c'è un fiume, anche insidioso, ma sembrano non curarsene.
I dubbi di cui dicevo : il 90% della spesa che viene definita nell'articolo "intoccabile", è tale per come è strutturato il nostro stato, o a prescindere ? La battaglia contro lobby e corporazioni , durissima, riguarda solo il 10% residuo ? Se così fosse staremmo messi male male, anche qualora arrivasse da noi il leader carismatico e determinato che viene auspicato (addirittura la Tatcher...stiamo freschi in Italia). Insomma su 800 miliardi circa di spesa, di cui diciamo un 10% sono di interessi sul debito, la "guerra civile" verterebbe su 70, giù di lì. Il resto, domando,  è veramente "intoccabile".  Suppongo, auspico, che la risposta sia negativa.
Comunque complimenti a Panci : l'analisi è chiara e anche piacevole da leggere.






Strade

Il grande inganno della spesa pubblica

di Amedeo Panci

Panci maggio sito

Da anni ormai si parla di riforme strutturali, ridurre la spesa, risanare il bilancio pubblico, favorire l'abbattimento della pressione fiscale e riportare l'economia italiana su un sentiero di crescita. È una visione tutto sommato condivisa da buona parte delle forze politiche, anche se con qualche variante. Di risultati, però, fino a oggi non c'è traccia. La spesa pubblica e la pressione fiscale non accennano a diminuire. L'Italia arranca e non riesce a liberarsi dalla morsa della crisi. Il paese sembra un ballerino di break-dance, si muove in modo frenetico, consuma energie, da l'illusione di andare avanti ma scivola all'indietro.
Difficile dire di chi è la colpa. Forse un po' ce l'abbiamo anche noi cittadini. Certo è, però, che i governanti, concentrati sulla comunicazione politica, preoccupati di mantenere un rapporto di consenso con l'elettorato, e in parte anche afflitti da incapacità e scarsa conoscenza, esorcizzano i problemi ma non li affrontano. I tecnici e gli economisti, dal canto loro, sfoderano ricette, corrette e condivisibili, ma che, orfane di una vera leadership politica, finiscono per assomigliare al più classico degli "armiamoci e partite".
In sintesi, il dibattito sul futuro dell'Italia, alimentato dallo storytelling della comunicazione politica e dalle ricette magiche degli economisti, si è arricchito di effetti speciali ma sembra avere esaurito proposte e soluzioni concrete.
Cosa ha da dire la politica sulla riforma e la razionalizzazione della spesa pubblica? L'immagine preferita paragona lo stato alla famiglia ideale. È un luogo comune molto efficace. Funziona perché, come al solito, banalizza le cose complesse, fa sembrare facili i problemi difficili e impegnativi, illude che tutto possa essere ricondotto a un semplice "basta volerlo". I politici se ne servono per prendere in giro gli elettori, e gli elettori per criticare i politici. Ma entrambi stanno leggendo e comunicando una realtà sbagliata.
Sbaglia il politico che, per convincere l'elettore medio, banalizza il problema, promette soluzioni a portata di mano, presenta se stesso come il buon padre di famiglia ed è convinto che basta avere in mano le redini e decidere con rapidità. Però poi va in panne ai primi intralci sociali, sindacali o burocratici.
Si illude l'elettore medio quando, al bar, dice che tagliare la spesa pubblica è semplice come tirare la cinghia in famiglia. Quando crede che per contrastare l'evasione fiscale basta affermare il principio che "ciascuno faccia la propria parte di sacrificio", o che "da oggi paga di più chi non ha mai pagato". Si illude di avere ragione, l'elettore medio, quando critica il politico e lo ritiene un incapace perché non sa fare le "leggi giuste". Proprio come critica il commissario tecnico perché non ha azzeccato la formazione della nazionale di calcio.
La materia prima dei luoghi comuni sono gli equivoci. È un grosso equivoco assumere come termine di paragone la famiglia ideale, fatta di persone coscienziose e responsabili. È un equivoco ancora più grosso ritenere che la politica possa fare il padre di famiglia serio e autorevole, che convince i propri congiunti a fare sacrifici quando è necessario, magari senza nemmeno battere i pugni sul tavolo.
Qualche tempo fa anche Matteo Renzi è scivolato sugli stessi equivoci. Per paura che i risparmi individuati dalla spending review di Cottarelli diventassero uno spauracchio pericoloso a ridosso delle prossime elezioni, non ha esitato a paragonare lo stesso Cottarelli a un grigio commercialista. Un funzionario che ha solo fatto il quadro della situazione. "Sarà la politica, come un buon padre di famiglia insieme a moglie e figli, a decidere se, come e quanto stringere la cinghia", ha lasciato intendere il premier.
Ma di quale famiglia e di quale padre si sta parlando? "Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo". Mi piace il modo con cui Tolstoj sottolinea che la famiglia ideale in fondo è una rarità. La normalità sono le famiglie più o meno disgraziate. Perché sono tantissimi e diversi i motivi di infelicità. Per chiunque, anche senza leggere "Anna Karenina", dovrebbe essere più facile immaginare l'Italia come una delle tante possibili famiglie infelici, o comunque certamente non come la famiglia ideale. Ma lo storytelling è un'arma potente. In un attimo ti illude di una realtà diversa, e ti fa dimenticare anche le cose più semplici e ovvie.
Quello che è più difficile da accettare in questa finzione è soprattutto la politica nelle vesti del buon padre di famiglia. A me la politica di oggi sembra molto più un padre debole e vacillante, incapace di imporsi ai propri figli dopo averli viziati per anni comprandone l'approvazione a suon di comodità e agiatezze. Non è un padre autorevole. È un genitore terrorizzato all'idea di essere abbandonato e ostracizzato dai familiari inviperiti, che rifiutano l'austerità e non vogliono rinunciare nemmeno alle spese superflue. Dunque, proviamo a fare un po' di anti-storytelling, e ci accorgiamo che il luogo comune dello stato-famiglia capace di stringere la cinghia non regge.
Le banalizzazioni della comunicazione politica sono un serio ostacolo alle soluzioni concrete, perché le illusioni sviano l'attenzione dai problemi veri.
Le analisi e le ricette di molti tecnici ed economisti, piene di ipotesi, concetti e ragionamenti rigorosi, invece, non peccano certo di illusionismo. Dal canto loro, però, provengono da punti di osservazione troppo distanti dalla realtà. E quando guardano la realtà più da vicino, spesso, si dimostrano inapplicabili.
Un amico economista, qualche tempo fa, voleva convincermi che il problema della spesa pubblica in Italia tutto sommato è semplice da risolvere: basta applicare al bilancio dello stato e degli altri enti pubblici lo zero base budgeting (ZBB) e tagliare gli sprechi. Ho provato a essere un po' più realista di lui, e mi sono reso conto che circa il 90 per cento della spesa pubblica italiana è di carattere obbligatorio o inderogabile, mentre quel che resta di spesa discrezionale è presidiato da potenti lobby, che non molleranno di certo l'osso facendosi convincere dalla forza delle idee. Nemmeno se queste ultime sono accompagnate da ragionamenti rigorosi e modelli economici sofisticati.
Ho provato a convincerlo che per rendere pienamente applicabile ed efficace lo ZBB prima si devono riformare strutturalmente l'economia e le istituzioni pubbliche. Prima si deve mettere mano all'apparato pubblico presidiato da una burocrazia agguerrita e pronta a difendere i piccoli e grandi privilegi di cui ha goduto fino a oggi. E che per fare questo non bastano gli enunciati teorici e la forza delle idee. Ci vuole una leadership politica forte.
Non lo ha convinto nemmeno il fatto che le ricette degli economisti illustrano un punto di partenza e indicano un punto di arrivo (a volte nemmeno troppo chiaramente), ma dimenticano di prendere in considerazione quello che ti potrà o dovrà accadere lungo la strada che divide i due punti. Ti suggeriscono di passare da una sponda all'altra del fiume, ma senza specificare se potrai andare in automobile su un bel ponte asfaltato, se dovrai rischiare l'osso del collo su un ponte tibetano o se metterai a repentaglio la pelle nuotando nell'acqua fredda in mezzo ai coccodrilli.
Ci siamo lasciati ciascuno con le proprie convinzioni. E io rimango convinto che le ricette degli economisti, se non sono assistite dal coraggio di una vera leadership, sono buone soltanto come materia prima per la comunicazione politica. Una vera leadership politica non indica soltanto il punto di arrivo, ma propone la strada concreta da percorrere, chiarisce quali ostacoli si devono superare e quali fatiche inevitabili si devono affrontare durante il percorso, e soprattutto non ha paura di pagare il costo politico delle riforme. Di fronte al fallimento, si fa da parte e cede il passo.
Tutte queste caratteristiche difficilmente appartengono a chi ha scelto di fare solo il mestiere della comunicazione politica o solo quello dell'economista. E meno che mai appartengono a chi si preoccupa solo di rimanere a galla.
Margaret Thatcher nei circa dieci anni del suo mandato ridusse la spesa pubblica di 7 punti di PIL portandola sotto il 40 per cento. Non conseguì questo obiettivo limitandosi a enunciare ricette o facendo comunicazione politica, ma lo fece creando una vera discontinuità nella politica del proprio paese. Si confrontò a muso duro con gli apparati burocratici e i sindacati, ingaggiò una dura battaglia fatta di scioperi e conflitti sociali e per questo è ricordata come la Lady di ferro. Ronald Reagan, che pure di comunicazione politica non era certo digiuno, scelse di "affamare la bestia", con una riduzione drastica delle tasse per costringere gli apparati pubblici a ridurre la spesa. Due figure e due leadership politiche forti che riuscirono a portare l'economia fuori dalle secche dello statalismo.
Tagliare la spesa pubblica non è un pranzo di gala. I luoghi comuni dei politici e le ricette magiche degli economisti potranno pure essere utili per esorcizzare la situazione, ma non spostano di un millimetro il vero problema, cioè come affrontare le resistenze di quella parte del paese che vive di spesa pubblica, e come gestire gli inevitabili costi sociali. Perché questo è il percorso da intraprendere se vogliamo che il paese torni a crescere. Troveremo qualcuno capace di accompagnarci per questa strada?

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