Nell'editoriale di oggi sul Corsera, Angelo Panebianco riprende un tema a lui caro - e invece molto impopolare - , vale a dire la critica della natura imbelle degli italiani, che in nome del pacifismo nostrano (un po' cristiano, un po' internazionalista), palesa quantomeno un senso assai scarso della realtà per non pensare di peggio ( una certa connaturata viltà).
Lo spunto glielo dà l'improvvida decisione del Parlamento che proprio in occasione del centenario del 24 maggio, e quindi dell'inizio della prima guerra mondiale per l'Italia, ha equiparato sostanzialmente i soldati morti in combattimento, circa 600.000, con il migliaio che morì di fronte al plotone di esecuzione per diserzione o viltà di fronte al nemico. Come può mai essere una cosa del genere ??
Come tanti, io rabbrividisco di fronte alle scene di repertorio di guerra, e mi sono emozionato nel vedere film memorabili come "Uomini Contro" di Francesco Rosi, con il racconto delle barbarica regola delle decimazioni. Sicuramente, tra quei mille soldati c'è chi merita la riabilitazione oggi concessa dal Parlamento, perché uccisi ingiustamente. Ma gli altri ? Quelli la cui diserzione fu accertata ? Possono essere assimilati a quelli che obbedirono e sacrificarono la loro vita ? Non è in discussione, come osserva opportunamente Panebianco, l'umana pietà per tutti, bensì l'assimilazione tra le due categorie. Certo, si può discutere, e infatti molti storici lo fanno, sulla dissennata condotta di guerra decisa per anni dal comandante in capo, Luigi Cadorna, vilmente assecondata dai suoi luogotenenti, che per grado ben avrebbero dovuto obiettare che gli assalti frontali alla baionetta contro posizioni fortificate sulle montagne, difese dalle terribile nuove armi, mitragliatrici in primis, era una tattica suicida, anche sull'esempio di quanto già visto, nel 2014, sul fronte occidentale. Però ha ragione il noto e bravo politologo non solo a denunciare l'ingiustizia dell'equiparazione tra chi comunque obbedì e morì rispetto a chi disobbedì e disertò, ma anche il pericolo di una pronuncia siffatta. Disobbedire ad ordini criminali è giusto ed anche previsto (rappresaglie sui civili, uccidere nemici che si arrendono...cose così ), ma estendere simile discrezionalità fino alla "giustizia" o meno del conflitto, si capisce facilmente che conseguenze devastanti avrebbe per l'esito militare di qualsiasi azione.
Oggi tra l'altro è stata eliminata la leva obbligatoria, e quindi chi si arruola non dovrebbe essere animato da un pacifismo a prescindere che lo ostacola nell'obbedire agli ordini.
Ma anche così non fosse, e per emergenza nazionale, che naturalmente ci auguriamo mai si presenti, si dovesse tornare alla coscrizione generale, che si fa ?
Buona Lettura
La lezione
(rimossa)
delle guerre
di Angelo Panebianco
Le bandiere nere dello Stato Islamico non sventoleranno mai, o così si spera, a San Pietro e, quindi, non si realizzerà, per la parte che ci riguarda, la profezia attribuita a Maometto: Roma non seguirà Bisanzio, non diventerà islamica. A sua volta, la Libia verrà prima
o poi messa sotto controllo senza combattimenti cruenti (ma qui le speranze sono decisamente inferiori), con il disarmo delle milizie armate, da una coalizione internazionale, magari a guida italiana, alleata ai governanti (quali?) locali.
E forse l’Italia continuerà ad avere fortuna: il terrorismo jihadista non ci colpirà. Forse. Nel frattempo, i rumori di guerra restano forti e vicinissimi a noi. Occorrerà restare pronti a tutto per chissà quanto tempo.
In queste condizioni diventa lecita una domanda: che succede quando uno Stato che deve fronteggiare tempi assai turbolenti decide, con atto solenne, di equiparare, civilmente e moralmente, i disertori condannati a morte di una guerra di cento anni prima ai soldati che in quella guerra combatterono e morirono rispettando gli ordini ricevuti? Tale atto solenne significa solo chiudere in un certo modo (discutibile
o meno che esso sia) una pagina di storia passata?
O significa anche condizionare e prefigurare il futuro? Se viene stabilito per legge che non c’è differenza, morale e civile, fra colui che si ribellò agli ordini rifiutandosi di combattere e colui che morì combattendo, non si finisce per svalutare l’azione di quest’ultimo?
E non si finisce anche, se non proprio per legittimare la ribellione agli ordini in eventuali future situazioni di conflitto armato, di rendere comunque tale comportamento meno grave, quanto meno sul piano morale?
Con una votazione sorprendente (331 sì, nessun contrario, un astenuto), la Camera ha licenziato un testo che ora passerà al Senato per l’approvazione definitiva. Se diventerà legge dello Stato consentirà la riabilitazione dei circa mille soldati italiani che, durante la Prima guerra mondiale, vennero giustiziati dopo un regolare processo oppure passati per le armi per ordine dei loro diretti superiori (in certi casi anche usando l’odioso metodo della decimazione) secondo le regole di guerra vigenti, perché accusati di diserzione, fuga di fronte al nemico o disobbedienza, anche collettiva, ai superiori. Il testo prevede che a quei mille venga restituito l’onore militare equiparandoli ai circa seicentomilacinquecento militari italiani caduti (direttamente in azione, o a causa di malattie contratte al fronte o a guerra finita per le ferite riportate). Il testo prevede anche che venga posta una targa nel Vittoriano nella quale lo Stato, al fine di chiedere perdono, ne ricordi il sacrificio.
Non c’è dubbio che, come ha dichiarato il Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Claudio Graziano, anche i mille furono vittime della guerra. Di fronte a quei soldati, spesso poveri contadini, gente che si ribellava all’idea di partecipare a un conflitto di cui forse non comprendeva scopi e ragioni, non si può evitare di provare umana pietà.
Ma il punto è che esprimere comprensione e umana pietà per quei poveri morti è una cosa, tutt’altra cosa è equipararli a coloro che non scapparono, che restarono a combattere e che morirono proprio per questo. Probabilmente, fra i tanti che alla Camera hanno votato sì a quel testo, solo una piccola parte ne ha compreso implicazioni e risvolti. Un’altra parte, quasi certamente, nemmeno ci ha riflettuto sopra: ha pensato che fosse solo un bel gesto, senza conseguenze pratiche. E forse una terza parte, più cinica, infine, pur capendo benissimo dove si andasse a parare, non aveva interesse a sollevare obiezioni.
Dunque, quello stesso Stato che nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia organizza manifestazioni per onorare i propri morti in battaglia e i sacrifici del Paese, ne svuota il significato decretando che coloro che si rifiutarono di combattere sono degni di essere onorati al pari di quelli che morirono armi in pugno. I parlamentari che hanno voluto questo provvedimento intendevano raggiungere, presumibilmente, due obiettivi. Il primo era depotenziare simbolicamente la partecipazione italiana alla Grande Guerra, in nome e per conto di un generico pacifismo cristiano (se si leggono alcuni degli interventi parlamentari a sostegno del provvedimento ciò appare evidente). Non si trattava solo di esprimere un giudizio negativo su quel conflitto ma anche sul ruolo svolto dall’Italia. Altro che celebrare, sia pure con la sobrietà giustamente richiesta da Gian Enrico Rusconi su La Stampa (24 maggio), la vittoria italiana che i nostri soldati di allora, quelli che caddero e quelli che tornarono, fortissimamente vollero.
Il secondo obiettivo era più subdolo. Forzando ideologicamente l’interpretazione della Costituzione, attribuendo alla Repubblica un rifiuto della guerra in quanto tale anziché di quelle guerre d’aggressione a cui pensavano i costituenti quando scrissero
l’articolo 11, lo scopo, plausibilmente, era di porre un’ipoteca sull’uso, presente e futuro, dello strumento militare, rendendolo più difficoltoso. Se chi diserta ha la stessa dignità di chi combatte, cosa diventa lecito pensare di quelli che, nonostante tutto, scelgono di obbedire agli ordini? E che cosa pensare, poi, di quelli che, rispettando gli ordini, addirittura muoiono in combattimento? Forse il Parlamento farebbe meglio a dedicare un supplemento di attenzione alle implicazioni, simboliche e pratiche, di certe sue scelte.
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