Ogni tanto vado a vedere sulla raccolta on line de Il Sole 24 ore se ci sono nuovi articoli di Luca Ricolfi, notoriamente una delle menti che più ammiro e seguo nel campo della cultura e dell'informazione. Non ho trovato cose recentissime, però mi sono imbattuto in questo post del giugno scorso, che trovo desolantemente illuminante sulla situazione generale della nostra scuola e del riflesso che questo serio problema ha sul concetto pure tanto caro alla sinistra della diseguaglianza.
Si sa che il miglior ascensore sociale, nelle società che funzionano e che hanno la meritocrazia tra i loro valori fondanti (quindi NON l'Italia), è costituito dalla scuola. Mio padre, figlio di un impiegato della STEFER (una sorta di Atac dei tempi...) e di una casalinga, studiando, seriamente (non è necessario essere secchioni, lui non lo era, basta essere seri), si laureò, vinse il concorso, divenne magistrato (uno di quelli bravi, preparato e responsabile, non come tanti, troppi, di adesso...). Salì la scala sociale, senza avere particolari aiuti dalla famiglia (certo, i miei nonni fecero dei sacrifici per fare studiare i loro figli, ma SOLO quelli che volevano, nella fattispecie due su quattro e solo uno era bravo, infatti l'altra ha fatto la professoressa...), senza spinte e conoscenze.
Oggi questo è molto più difficile, e molto anche per il basso grado di preparazione fornito dalla nostra scuola.
Dove però, se si cerca di misurare l'effettiva conoscenza degli studenti - e di conseguenza il livello di qualità del lavoro dei docenti - gli strilli arrivano fino al cielo, da parte degli esaminandi e dei loro professori dalla lunga e spessa coda di paglia. Gli Invalsi hanno i loro difetti e limiti, si possono migliorare e correggere. Ma i professori vogliono proprio ELIMINARE ogni sorta di verifica, perché in realtà ne temono i - desolanti appunto - risultati.
Buona (si fa per dire...) lettura
La disuguaglianza studia all’ultimo banco
Di
disuguaglianze non si smette mai di parlare. Ci sono le disuguaglianze
economiche, le disuguaglianze sociali, le disuguaglianze nella salute. Ci sono
le disuguaglianze nel capitale ereditato dalla famiglia, nelle opportunità di
vita, nel talento individuale. E ci sono, naturalmente, le disuguaglianze nel
livello di istruzione, ossia nei titoli di studio che ognuno riesce ad
aggiudicarsi.
C’è un tipo di disuguaglianze,
tuttavia, che è enormemente cresciuto negli ultimi venti anni, e di cui nessuno
parla. Un tipo di disuguaglianze che regala a una minoranza della popolazione
una vita piena di opportunità e di soddisfazioni, mentre impone alla
maggioranza un’esistenza difficile o comunque piena di limitazioni.
Di che cosa si tratta?
Non c’è un termine condiviso per designare questo tipo di disuguaglianze, ma io le osservo quotidianamente nel mio lavoro di docente universitario che da anni insegna materie relativamente complesse (analisi dei dati e matematica) e ha a che fare sia con le “matricole” (gli studenti appena diplomati che si iscrivono all'università) sia con gli studenti che stanno per laurearsi. Possiamo chiamarle, molto approssimativamente, disuguaglianze di conoscenza; oppure “disabilità cognitive”, in omaggio al lessico in voga.
Non c’è un termine condiviso per designare questo tipo di disuguaglianze, ma io le osservo quotidianamente nel mio lavoro di docente universitario che da anni insegna materie relativamente complesse (analisi dei dati e matematica) e ha a che fare sia con le “matricole” (gli studenti appena diplomati che si iscrivono all'università) sia con gli studenti che stanno per laurearsi. Possiamo chiamarle, molto approssimativamente, disuguaglianze di conoscenza; oppure “disabilità cognitive”, in omaggio al lessico in voga.
È imbarazzante descriverle,
perché hanno raggiunto livelli che mi verrebbe da definire umilianti, livelli
che peraltro i test correnti, più o meno standardizzati, non sono assolutamente
attrezzati per misurare in tutta la loro ampiezza. Devo però fare una premessa,
prima di tentare una descrizione. La materia che insegno, per essere compresa e
padroneggiata a un livello accettabile, richiede un discreto grado di
organizzazione mentale. In buona sostanza capacità quali: padronanza della
lingua, astrazione, ragionamento, manipolazione di simboli astratti,
memorizzazione. È chiaro che simili capacità, come qualsiasi altra (compreso
saper ballare, suonare uno strumento, o sciare in neve fresca) non possono
essere possedute da tutti nella stessa misura. Il punto, però, è che quando
vengono messe alla prova da un esame universitario si rivelano distribuite in
un modo mostruosamente ineguale fra gli studenti.
E dico questo non nel senso
che ci sono studenti molto più bravi di altri (è sempre stato così), ma nel
senso che, al giorno d'oggi, almeno la metà degli studenti non ha
assolutamente, neppure alla lontana, la preparazione di base che - in teoria -
dovrebbe possedere in virtù del certificato che esibisce (diploma di scuola
secondaria superiore). Spesso non ha neppure la preparazione che ci si aspetta
da chi si è fermato alla scuola media inferiore.
E in un numero di casi tutt’altro
che trascurabile non ha nemmeno le competenze che, sulla carta, dovrebbero
essere trasmesse e garantite dalla scuola elementare (ad esempio far di conto e
non compiere errori di ortografia). All’attonito docente universitario può
persino accadere di trovarsi di fronte uno studente che non sa eseguire una
sottrazione elementare (1-5), o non sa addizionare 12 e 8 e deve ricorrere alle
dita per arrivare al risultato (naturalmente quest'ultimo è un caso-limite, ma
la domanda è: come ha potuto la scuola “certificare” le sue competenze e
rilasciargli un diploma?). Per non parlare del titanico lavoro di correzione
dell'italiano che incombe sui docenti quando giunge il tragico momento della
tesi di laurea (o meglio di quell’esercizio che ci ostiniamo ancora a chiamare
tesi).
Proverò a dirlo in un modo ancora
più crudo: per quel che vedo quotidianamente, una parte degli studenti
universitari ha un livello di organizzazione mentale che non è, semplicemente,
un po' meno buono di quello degli studenti bravi, ma è abissalmente inferiore,
come può esserlo il livello di organizzazione mentale di un bambino di
sei-sette anni rispetto a quello di un adulto.
E, cosa ancora più triste, in
molti casi il gap appare irrimediabile, in quanto chiaramente legato a percorsi
scolastici disastrosi, a occasioni di conoscenza clamorosamente mancate e che
difficilmente potranno ripresentarsi. Alla fine degli esami io chiedo sempre
“che scuola hai fatto?”, e le risposte che mi accade di ascoltare sono
terrificanti: quello che i tanti studenti in difficoltà raccontano sugli
insegnanti che hanno avuto, sul numero di supplenti che si sono alternati in
certe materie, sui programmi svolti e non svolti, sulle licenze didattiche che
tanti prof si sono presi, tutto questo restituisce un quadro della scuola
mortificante.
Un quadro, sia detto per inciso, in cui non si intravedono più,
come un tempo, condizioni di svantaggio sociale, o tragedie familiari e
personali, bensì solo prosaiche vicende istituzionali (e spesso familiari) di
incuria e superficialità, approssimazione e leggerezza. In sostanza:
l’ordinario modus vivendi di una società in cui, di fatto (anche se a parole lo
neghiamo), la cultura, la conoscenza, lo studio sono divenuti assai meno
importanti di tutto il resto.
Non mi interessa, qui, indicare
di chi è la responsabilità, che è chiaramente di tutti: genitori, insegnanti,
politici e, naturalmente, studenti (il non-studio è anche una scelta). Quello
su cui vorrei attirare l'attenzione è invece l'enorme diversità di destino fra
i miei studenti. Quando li incontro e quando ci parliamo, lo vedo ad occhio
nudo: c'è chi quasi certamente ce la farà, perché la scuola e l’università
hanno strutturato la sua mente, e c’è chi (salvo il caso in cui abbia una
famiglia potente alle spalle), avrà una vita lavorativa difficile, perché la
scuola e l’università hanno preferito rilasciargli un titolo senza occuparsi
seriamente della sua mente.
È strano. Da un paio di decenni
abbiamo deciso che le nostre sono “società della conoscenza”, non c’è occasione
in cui non ripetiamo che la conoscenza è la variabile fondamentale, che da essa
dipendono i destini delle economie come quello degli individui; da anni e anni
ci stracciamo le vesti, scendiamo in piazza, firmiamo manifesti e appelli
contro la (presunta) inarrestabile crescita delle disuguaglianze economiche, e
poi – chissà perché – di fronte agli spaventosi divari di conoscenza fra i
nostri giovani, che certamente produrranno grandi disuguaglianze nelle loro
vite, non diciamo nulla, li accettiamo come se non esistessero, o non fossero
importanti. C’è qualcosa che non va. O sbaglio?
Ancora una volta Ricolfi riesce a dire con semplicità laddove altri, con mille giri di parole, mistifcano...........e pure male.
RispondiEliminapurtroppo sono delle tristi verità.
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