Boris Johnson , l'uomo che ha tradito Cameron (da lì a poco ha assaggiato identica medicina, che poco piace...) e ha contribuito alla terribile Brexit, l'indomani della fatidica scelta ha preso carta e penna e scritto un bel messaggio, che abbiamo pubblicato (http://ultimocamerlengo.blogspot.com/2016/06/parla-il-vincitore-la-storia-dara.html ).
Concludeva dicendo che la storia avrebbe dato ragione al popolo inglese.
Per i responsi della Storia c'è bisogno di tempo, però, a distanza di un paio di settimane, si nota qualche stranezza : la Gran Bretagna non è stata investita da uno tsunami finanziario, mentre semmai sono altri i paesi che se la stanno passando male sui mercati e tra questi, immancabilmente ahinoi, c'è l'Italia.
Luca Ricolfi riflette su questi dati e ci ragiona su, da par suo.
Buona Lettura
Brexit e reazione dei mercati: tanto rumore per poco?
di LUCA RICOLFI
Se c'è un punto che
accomuna gli amici e i nemici della Brexit, è di essere ricorsi entrambi alla
retorica della paura. I fantasmi dell'immigrazione incontrollata e della
tecno-burocrazia europea sono stati il piatto forte della campagna per la Brexit. Ma i fautori
del Remain non sono stati da meno: come ha giustamente notato il politologo
Marco Tarchi in un bell'articolo sul Fatto Quotidiano, la previsione di una
catastrofe economica innescata da un'uscita del Regno Unito è stata il
principale argomento della propaganda contro la Brexit.
Non sappiamo, né potremo sapere mai, come sarebbero andate
le cose se avesse vinto il Remain, ma in compenso ci è concesso osservare le
prime vicende del dopo-Brexit. Che sono piuttosto interessanti. Sul piano della
comunicazione la reazione che sta prevalendo fra i commentatori è il ricorso a
un consolidato schema di ragionamento: trasformare un problema, il divorzio fra
Europa e Regno Unito, in un’opportunità, il rilancio del sogno europeo.
Vanno in questa direzione molti commenti di politici e
osservatori, ma anche le riflessioni di alcuni protagonisti dell’economia (si
veda, ad esempio, il dialogo fra Roberto Napoletano e Carlo Messina, ceo di
Intesa Sanpaolo, pubblicato su questo giornale all’indomani della Brexit).
Meno attenzione sembra attirare il fatto che questa
reazione, tutto sommato ottimistica, in tanto è possibile in quanto (almeno fin
qui) l’impatto della Brexit sull’economia è stato assai meno violento di quanto
la campagna per il Remain lasciasse supporre. Dopo il tonfo del “venerdì nero”
dell’immediato dopo-Brexit, le borse hanno recuperato circa metà delle perdite,
e quella di Londra le ha anzi assorbite completamente.
L’indebolimento della
sterlina rispetto al dollaro e all’euro è stato minore di quello sperimentato
in altre circostanze (ad esempio durante la recessione 2008-2009) e, sostengono
alcuni, probabilmente vi sarebbe stato comunque, vista la necessità di
riequilibrare la bilancia commerciale del Regno Unito.
Quanto agli spread sui
titoli pubblici decennali, quelli britannici vantano la migliore performance
del dopo-Brexit: fra gli ultimi due giorni ante-Brexit e gli ultimi due giorni
della settimana uscente la
Germania ha beneficiato di una riduzione dei tassi di interesse
di 22 punti-base, ma il Regno Unito di ben 47, più di qualsiasi altro paese
europeo (almeno in base ai dati disponibili fino a ieri).
Tutto bene, dunque?
Non esattamente. Un’occhiata all’evoluzione degli spread con
la Germania
(vedi grafico accanto) permette di osservare che, fra i paesi dell’Eurozona, la
performance migliore è quella della Spagna, presumibilmente aiutata dall’esito
delle elezioni politiche (che hanno punito Podemos, la forza più euroscettica
del paese), seguita dalla Slovenia ma anche dall’Irlanda (un tempo annoverata
fra i PIIGS), e da tutti i paesi del nucleo forte dell’euro (Francia, Belgio,
Austria, Finlandia, Olanda). Le performance peggiori, sempre nell’Eurozona,
sono invece quelle della Grecia, del Portogallo, della Slovacchia e, purtroppo,
anche dell’Italia, tutti paesi che dopo la Brexit allargano il loro divario con la Germania.
A giudicare dai primi giorni, dunque, l’impatto della Brexit
sembra alquanto differente da quello annunciato dai catastrofisti. Soprattutto,
la reazione dei mercati non sembra seguire il sentiment della politica, sia
essa impersonata dalle autorità europee o dalle agenzie di rating americane.
Colpisce, ad esempio, che subito dopo la Brexit Moody ’s abbia
tagliato (da stabile a negativo) l’outlook del debito pubblico della Gran
Bretagna, mentre i mercati procedevano nella direzione opposta, concedendo una
ampia riduzione dello spread con la Germania.
Soprattutto, colpisce la asimmetria e la selettività delle
reazioni dei mercati. Asimmetria perché, a dispetto dei moniti della vigilia,
secondo cui era innanzitutto interesse del Regno Unito restare in Europa, per
ora la Brexit
sembra creare più problemi al di qua che al di là della Manica. Selettività
perché, nell’ambito dell'Eurozona, nonostante gli ampi interventi di sostegno
ai titoli di Stato dei paesi deboli che verosimilmente la Bce sta attuando in questi
giorni, i rendimenti dei titoli di Stato dei paesi dell’euro sono tornati a
divergere, come sempre accade nei periodi di allarme dei mercati. Con un’importante
novità rispetto al passato: ora Irlanda e Spagna sembrano tornate nel gruppo
dei paesi forti, mentre all’Italia resta solo la consolazione di essere il meno
debole dei paesi deboli. Nell’ultimo giorno della settimana, a sei giorni dalla
Brexit, l’interesse sui nostri titoli di Stato decennali non solo aveva
aumentato il divario con la
Germania , ma superava quello della Spagna di 15 punti base e
quello dell’Irlanda di ben 77.
Insomma, nessuno può sapere quanto grave potrà essere
l’impatto finale della Brexit sulle economie del Vecchio Continente, specie ove
il sostegno della Bce ai titoli di Stato dei paesi deboli dovesse affievolirsi
o venir meno, ma una cosa pare assodata: le differenze di sostenibilità fra i
conti pubblici dei vari paesi i mercati continuano e vederle, oggi come prima
della Brexit.
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